Senza guerre si può

Il presidente Mattarella, ricevendo al Quirinale il corpo diplomatico accreditato in Italia per il tradizionale incontro dedicato agli auguri, ha manifestato la sua preoccupazione sulla situazione internazionale, in quanto, nonostante gli auspici di maggiore cooperazione e solidarietà, l’anno che volgeva al termine ha visto allargarsi il novero delle crisi su scala globale: rilevazioni recenti fanno registrare ben 56 conflitti.

Un segnale di certo non confortante è l’affermazione emersa dalla NATO: «bisogna entrare in mentalità di guerra». Concretamente vi è la proposta di aumentare al 3% del prodotto interno lordo le spese militari, se non al 5% come sostenuto da Trump.

Quante e dove

Il dato fornito dal Presidente, il più alto mai fatto registrare dalla fine della Seconda guerra mondiale, è stato diffuso dal Global Peace Index 2024.

Entrando nel merito, la panoramica spazia in gran parte del globo. Oltre alle situazioni problematiche seguite quotidianamente, come quelle in Palestina e Ucraina, si segnalano armi in azione in Libia, nello Yemen, in Etiopia e Sudan, tra Azerbaigian e Armenia, solo per citare i casi principali.

Nel 2024 i conflitti hanno causato oltre 200.000 morti, con un aumento significativo rispetto all’anno precedente, nel quale le stime erano di circa 122.000 vittime. In particolare si calcola che in Ucraina vi siano stati oltre 37.000 morti, mentre in Palestina dovrebbero essere più di 35.000 (e quasi 100.000 feriti); 283 operatori umanitari hanno perso la vita mentre prestavano assistenza nelle zone di conflitto, un numero più che raddoppiato rispetto a cinque anni fa; conflitti e disastri naturali hanno provocato 117 milioni di sfollati.

Un tema complesso e spinoso

Le guerre rappresentano una questione estremamente difficile: ci si interroga sul suo significato e sulle complicazioni che hanno sullo sfondo addirittura la minaccia nucleare.

Esaminando la cosa con freddezza possono essere rintracciate le motivazioni dei conflitti, in una combinazione spesso di difficile decifrazione.

Un primo è il desiderio di potere e controllo, poi gli interessi economici: accesso alle risorse, tensioni riguardati la povertà e le disuguaglianze. A questi si possono aggiungere motivi sollecitati da vendette o ritorsioni, oppure da atti violenti. Altri elementi sono differenze ideologiche, culturali e religiose, insieme a manifestazioni di nazionalismo estremo e fattori identitari; sono poi da considerare i riflessi delle instabilità politiche provocate dai cambi dei regimi o dalla loro fragilità.

Da qualche tempo si sono aggiunte ragioni dovute alla crisi climatica e allo sfruttamento dell’ambiente. Da sempre, invece, possono essere individuate una coppia di motivazioni. Gli interessi delle grandi potenze delle varie epoche che sostengono guerre in altri luoghi per difendere i propri interessi o, tema di grande attualità, il mercato estremamente remunerativo delle armi. Infine la mancanza di capacità di dialogo e diplomazia: quando i leader non riescono a risolvere le dispute pacificamente, la guerra diventa una soluzione per imporre la propria visione.

Guerre sempre più disumane

Lo sviluppo storico dei conflitti sta seguendo una parabola volta al peggio: caratteri sempre più atroci e crudeli, con una cancellazione di fatto delle regole più elementari dell’umanità. Un nuovo fenomeno ha portato ulteriori elementi di gravità: il terrorismo, che ha radicalizzato le forme di lotta tradizionali.

Vi è stata una fase, durata pochi anni e coincidente con la cosiddetta guerra fredda, in cui si è realizzato, sia pure attraverso quella forma perversa di intesa che è stata l’equilibrio del terrore, la possibilità di una pace relativamente stabile fondata sulla paura della deterrenza nucleare, conclusa con il collasso dei sistemi politici dell’Europa orientale e dell’Unione Sovietica.

Terminato tale periodo si sono sviluppati, anche in termini di ricerca teorica, una molteplicità di iniziative volte a diffondere i conflitti, come pure nuovi strumenti che utilizzano le moderne tecnologie, sia concrete, come i droni, sia virtuali come l’uso dell’intelligenza artificiale per scopi bellici.

Ma ci sono soluzioni

Le guerre sono spesso considerate il risultato di un deplorevole malinteso o una manifestazione di irrazionalità, ma solo individuandone le cause, soprattutto quelle profonde, è possibile indicare le strade per la pace.

È opportuno superare una prospettiva solo emotiva e sentimentale nella ricerca della pace: tutti sono contrari alla guerra. Si deve impostare un cammino per costruirla non come risultato di un auspicio, ma come esito concreto di una pluralità di prospettive e di iniziative.

Nel silenzio di troppi vi sono voci che esplicitano possibili percorsi e scelte da operare verso un mondo pacificato, come quella di papa Francesco. Purtroppo non hanno provocato pronunciamenti e azioni altrettanto espliciti da parte dei governi, ma hanno colto la direzione da percorrere: la connessione fra la distribuzione disuguale delle risorse di qualunque genere a livello planetario e l’accendersi dei focolai di guerra, insieme alla necessità di diffondere una cultura della pace. Una conferma arriva da alcune organizzazioni, come la FAO, alla quale aderiscono ben 168 paesi, o come Oxfam, che annualmente pubblica i suoi rapporti sulla disuguaglianza, che sottolineano come non vi potrà essere pace se non sarà preventivamente realizzata una maggiore giustizia globale.

Si vis pacem, para bellum

In queste considerazioni si trova la possibilità di aggiornare la famosa sentenza «se vuoi la pace prepara la guerra», solo che in questo caso la guerra dovrebbe essere combattuta contro gli squilibri economici e le ingiustizie sociali.

I dati confermano il valore di tali prospettive. La FAO sostiene che la Terra potrebbe nutrire il doppio della popolazione, mentre i numeri del 2023 narrano di 733 milioni di persone colpite dalla fame (152 milioni in più rispetto al 2019) e che la malnutrizione acuta è la causa della morte di un bambino su cinque. I quattro quinti dell’umanità dispone di un quinto delle risorse mentre un quinto dell’umanità ha i quattro quinti delle risorse; un miliardo e 200 milioni di persone cerca di sopravvivere con meno di un dollaro al giorno; infine, ecco una cifra che fa rabbrividire: un bambino americano consuma come 324 coetanei etiopi.

Fino a che permarranno questi squilibri, queste differenze così radicali, non si può pensare che il mondo sia in pace: l’esistenza stessa di tali differenze è la testimonianza di una sorta di tacita guerra mossa dai ricchi nei confronti degli altri.

Per la pace

Costruire la pace richiede un approccio complesso e multidimensionale, che affronti le cause profonde dei conflitti e promuova valori condivisi di giustizia, equità e solidarietà. Vi sono alcune strategie chiave per raggiungere questo obiettivo.

Come largamente affrontato il primo elemento è la promozione della giustizia, di uno sviluppo globale sostenibile, ma non basta. È essenziale rafforzare le istituzioni internazionali e la cooperazione, ogni forma di partenariato e di solidarietà; l’educazione alla pace va promossa con decisione, insegnando la tolleranza, il rispetto, la diffusione dei valori, la memoria storica, si deve combattere la cultura della violenza e costruire una cultura della fiducia; sono da favorire il dialogo e la diplomazia, la partecipazione.

La pace non è solo assenza di guerra, ma uno stato di benessere personale, sociale, economico e politico. Richiede uno sforzo collettivo e continuo da parte di persone, comunità, governi e istituzioni globali. È un processo, non un evento, che inizia cambiando mentalità e strutture per costruire un mondo più giusto e armonioso.