Wangari Muta Maathai: pace e sviluppo sostenibile

Nel 2004 la prima donna africana ricevette il Premio Nobel per la pace e nella motivazione si legge una frase molto significativa: «la pace nel mondo dipende dalla difesa dell’ambiente».

Si chiamava Wangari Muta Maathai. Lei stessa, e nel medesimo anno, affermò: «Tutte le guerre si sono combattute e si combattono per accaparrarsi le risorse naturali che stanno diventando sempre più scarse in tutto il globo. Se veramente ci impegnassimo a gestire queste risorse in modo sostenibile, il numero dei conflitti armati diminuirebbe di certo. Preoccuparsi per la protezione dell’ambiente e lottare per l’armonia ecologica sono modi diretti di salvaguardare la pace».

Nel momento in cui si combattono decine di conflitti nel mondo questi concetti sono di un’importanza straordinaria e dovrebbero guidare le coscienze e le politiche.

La vita

Wangari Muta Maathai, biologa, ambientalista e attivista politica keniota, nacque a Nyeri (Kenya) il 1° aprile del 1940, nell’etnia Kikuyu.

Quando il Kenya era una colonia inglese, le figlie dei contadini Kikuyu non andavano a scuola, ma un fratello convinse la madre a farle frequentare con lui le elementari del villaggio e un insegnante consigliò la prosecuzione degli studi e la raccomandò alla scuola Santa Cecilia, un pensionato della missione cattolica di Nyeri. Wangari si convertì al cattolicesimo, all’esame delle medie fu la migliore della classe e fu ammessa al liceo Nostra Signora di Loreto, a Limuru, l’unico liceo femminile del Kenya.

Dopo il diploma e grazie a borse di fondazioni statunitensi, frequentò il college di St. Scholastica e l’università di Pittsburgh dove si laureò in biologia. Finita la specializzazione nel 1966, fu nominata assistente di ricerca al Dipartimento di zoologia dello University College di Nairobi, ma, tornata in patria, scoprì che il posto era stato assegnato a un uomo che stava ancora studiando in Canada ed era della stessa etnia del direttore. Ottenne comunque un incarico simile alla Scuola di veterinaria, e contemporaneamente si occupò di ricerca alle università di Giessen e di Monaco, in Germania, per terminare la tesi di dottorato.

Nel 1969 sposò Mwangi Mathai e due anni dopo fu la prima keniota a ricevere un dottorato e, nel 1974, la prima a diventare professore assistente.

Organizzò la lotta delle lavoratrici dell’università per un salario migliore, militò nella Croce Rossa, entrò nel Consiglio nazionale delle donne e, come rappresentante delle universitarie, fece parte dell’Environmental Liaison Centre che promuoveva la partecipazione delle organizzazioni non governative al Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP).

Quando il marito venne eletto in parlamento per aiutarlo a mantenere la promessa di nuovi posti di lavoro Wangari fondò Envirocare, una società vivaistica, che fallì, anche per l’ostilità del governo che distribuiva terre statali ai propri protetti, i quali le disboscavano per far posto a grandi piantagioni di tè e di caffè. Durante la giornata mondiale per l’ambiente del 1977, con altre donne del Consiglio nazionale, piantò, come simbolo di pace, sette alberi in un parco appena fuori città. Fu l’inizio del movimento femminile Green Belt, contro il degrado ambientale, ma anche contro la corruzione e il “tribalismo” del partito unico di Daniel Moi, presidente keniota dal 1978 al 2002. Le attiviste furono malmenate, incarcerate, minacciate di morte, ma continuarono a distribuire semi e a insegnare ad altre donne a curare gli alberi, a difenderli con forme di lotta non violente, protette da agenzie dell’Onu e da Ong straniere, e finanziate dalla Società forestale norvegese.

Nel 1985 il terzo vertice delle Nazioni Unite sulle donne si tenne a Nairobi e le delegate furono accompagnate a vedere gli alberi che stavano crescendo attorno a scuole, chiese, campi coltivati. Nacque così il Pan African Green Belt Network che in quindici paesi si impegnò contro la desertificazione, la siccità e la fame: il risultato fu una cinta verde di quasi 30 milioni di alberi nell’Africa subsahariana.

Mentre Wangari Mathai collezionava premi internazionali, la sua popolarità e quella di Green Belt continuava a crescere e il movimento si trasformava. Lottò anche per la democrazia, una giustizia uguale per tutti, i diritti umani e civili, la libertà di espressione, e, in seguito, per la cancellazione del debito estero dei paesi più poveri. Occupò terre pubbliche cedute spesso illegalmente a società straniere, oppure per la costruzione di campi da golf degli amici del presidente e persino per un parco al centro di Nairobi dove il presidente stesso intendeva costruire un grattacielo e farne la sede del proprio partito.

Tali azioni ebbero come conseguenze campagne di diffamazione, arresti e processi. Il marito accusò Wangari di tradirlo, di essere una ribelle, di trascurare lui e i tre figli, e vinse la causa di divorzio. Il presidente Moi rincarò la dose: quelle donne sono una minaccia per l’ordine pubblico. La sua repressione fu così brutale da suscitare le proteste di governi stranieri: il vicepresidente USA Al Gore chiese la liberazione delle prigioniere con la minaccia di sospendere una parte degli aiuti bilaterali.

Nel 2002 Wangari Maathai (con una “a” in più perché l’ex-marito le vietò di usare il cognome da sposata) si presentò alle elezioni con la Coalizione arcobaleno e nella sua circoscrizione venne eletta con il 98% dei voti. Diventò allora viceministro dell’ambiente e delle risorse naturali, e nel 2004 ricevette il premio Nobel per la pace.

L’anno dopo fu eletta presidente del Consiglio economico, sociale e culturale dell’Unione Africana e rappresentò il Continente in assemblee internazionali. Nel 2007 non fu più eletta, probabilmente a causa di frodi.

Nonostante il cancro che la portò alla morte nel 2011, con altre vincitrici del Nobel fondò la Nobel Women’s Initiative per dar visibilità a quelle che come lei cercavano di rendere il mondo un po’ più vivibile per tutti.

Attraverso una strategia fatta di educazione, pianificazione familiare, alimentazione consapevole e lotta alla corruzione, il Green Belt Movement aprì la strada allo sviluppo a partire da tutti i livelli della società. Wangari è stata la voce simbolo delle migliori forze africane e della lotta per promuovere la pace e il benessere nel Continente.

Il commento

Wangari Muta Maathai è stata una donna straordinaria, capace di coniugare ambientalismo, lotta per i diritti umani e impegno politico. Il suo lavoro ha gettato le basi per un approccio olistico alla sostenibilità, riconosciuto oggi come essenziale nella lotta contro la crisi climatica e l’ingiustizia sociale. Rappresenta un modello di leadership etica e coraggiosa, che dimostra come ambiente, diritti e democrazia siano strettamente connessi.

Pioniera dell’ambientalismo e dello sviluppo sostenibile

Uno degli aspetti più rivoluzionari del suo pensiero fu l’intuizione che l’ecologia non fosse solo una questione ambientale, ma anche politica e sociale. Negli anni ’70, il Kenya stava attraversando una crisi ambientale causata da un’intensa deforestazione e da un uso irresponsabile delle risorse naturali. Questo aveva portato a una crescente erosione del suolo, alla desertificazione e a una diminuzione della fertilità della terra, minacciando la sicurezza alimentare delle comunità rurali.

Di fronte a questo scenario il Green Belt Movement divenne un potente strumento di cambiamento: piantare alberi significava anche ridare dignità e indipendenza economica alle donne, garantire una gestione più equa delle risorse naturali e rafforzare la partecipazione della popolazione nelle decisioni politiche; la piantumazione degli alberi rappresentava inoltre un gesto di resistenza contro un sistema politico ed economico che sfruttava indiscriminatamente la natura e le persone più vulnerabili.

Nel corso degli anni, il movimento si espanse a livello internazionale, ispirando iniziative analoghe in altri paesi africani e nel resto del mondo.

La lotta per la democrazia e i diritti umani

La nostra testimone comprese presto che lottare per l’ambiente significava anche sfidare il potere politico e denunciare la corruzione. Negli anni ’80 e ’90, il Kenya era sotto il regime autoritario di Daniel arap Moi, un presidente che governava con repressione e favoritismi, favorendo uno sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali a beneficio di pochi.

Uno degli episodi più significativi della sua lotta politica fu la campagna, prima ricordata, contro il progetto di costruzione di un grattacielo e di un complesso residenziale all’interno del Parco Uhuru, uno dei pochi spazi verdi rimasti nella capitale Nairobi. Il governo, che aveva autorizzato il progetto senza consultare i cittadini, si scontrò con una feroce opposizione guidata proprio da Wangari. Nonostante minacce, arresti e attacchi fisici, lei riuscì a mobilitare la società civile e a fermare il progetto, dimostrando che la partecipazione popolare poteva davvero cambiare le cose.

Le sue battaglie, però, non riguardavano solo l’ambiente. Si impegnò anche per la democratizzazione del Kenya, sostenendo i movimenti di opposizione e chiedendo riforme che garantissero maggiore trasparenza e diritti per tutti. Questo la portò a subire pesanti persecuzioni da parte del governo, inclusi arresti e violenze fisiche, ma non smise mai di combattere.

Il Premio Nobel per la Pace: un riconoscimento storico

Nel 2004, Wangari Maathai fece la storia diventando la prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per la Pace. Il Comitato Nobel riconobbe il suo straordinario contributo alla sostenibilità ambientale, alla pace e alla democrazia, sottolineando come il suo impegno andasse ben oltre la semplice tutela dell’ambiente.

In un mondo in cui le crisi ecologiche sono sempre più connesse ai conflitti sociali e politici, il suo lavoro ha dimostrato che proteggere la natura significa anche tutelare i diritti umani. Il Premio non solo onorò il suo lavoro, ma contribuì a dare maggiore visibilità al movimento ecologista africano e a ispirare milioni di persone in tutto il mondo.

Sfide, critiche e resistenza

Nonostante i suoi successi, Maathai dovette affrontare numerose difficoltà. In patria, fu spesso attaccata da politici e gruppi conservatori, che la accusavano di essere una «donna ribelle» e di voler destabilizzare il paese. La sua forte personalità e il suo rifiuto di piegarsi alle pressioni del potere la resero un bersaglio per molti, ma non si lasciò mai intimidire.

Alcuni critici l’accusarono di essere troppo radicale e di usare l’ambientalismo come una scusa per fare politica. Tuttavia, proprio questa sua capacità di connettere ecologia e giustizia sociale è ciò che ha reso il suo lavoro così rivoluzionario.

La sua eredità

Il suo Green Belt Movement continua a operare, e il suo esempio ha ispirato migliaia di attivisti in tutto il mondo.

Il suo messaggio è più attuale che mai. Di fronte alla crisi climatica globale, alla deforestazione e alle disuguaglianze sociali, il suo approccio, che intreccia ambiente, giustizia e democrazia, è un modello imprescindibile per chiunque voglia costruire un futuro più equo e sostenibile.

In un’epoca in cui la lotta per il clima è spesso vista come un tema tecnico o distante dalla vita quotidiana, ci ha insegnato che prendersi cura degli alberi, e in generale dell’ambiente, significa occuparsi delle persone.

Il suo coraggio, la sua determinazione e la sua visione restano una fonte di ispirazione, ricordandoci che anche il più piccolo gesto, come piantare un albero, può essere un atto importante.

Le fonti

Per conoscere meglio Wangari Muta Maathai, ci sono diverse fonti autorevoli tra libri, documentari, articoli e siti web ufficiali. Ecco un elenco dettagliato.

Wangari ha raccontato la sua storia e le sue idee in diversi libri, che rappresentano una risorsa essenziale per comprendere il suo pensiero. Unbowed: A Memoir, del 2006, pubblicato in Italia col titolo Senza paura. L’autobiografia, che ripercorre la sua vita, dalle radici in Kenya fino al Premio Nobel per la Pace, raccontando le sfide affrontate e il significato della sua lotta. The Green Belt Movement: Sharing the Approach and the Experience, del 2003, che descrive nel dettaglio la nascita e l’impatto del Green Belt Movement, con spunti pratici su come replicare il modello in altre parti del mondo. Replenishing the Earth: Spiritual Values for Healing Ourselves and the World, del 2010, pubblicato in Italia col titolo Rigenerare la terra, un testo che esplora il legame tra spiritualità, ecologia e sviluppo sostenibile, offrendo una visione profonda sulla necessità di riconciliarsi con la natura. The Challenge for Africa, del 2009, pubblicato in Italia col titolo La sfida dell’Africa, un’analisi delle problematiche economiche, politiche e ambientali del continente africano, con proposte concrete per un futuro sostenibile.

Tra i documentari e i video è importante citare Taking Root: The Vision of Wangari Maathai, un documentario dettagliato che racconta la sua storia e quella del Green Belt Movement, con interviste e immagini d’archivio; la registrazione del discorso tenuto alla consegna del Premio Nobel per la Pace, che offre un’ottima sintesi del suo pensiero e della sua visione per il futuro; materiale disponibile sulla rete insieme a diverse conferenze e interviste nelle quali Wangari parla delle sue battaglie e dell’importanza della riforestazione.

Siti di organizzazioni ambientaliste e umanitarie come Greenpeace, WWF e Amnesty International hanno articoli approfonditi sulla sua vita e sul suo impatto; riviste accademiche e scientifiche (ad esempio Environmental Research Letters, Journal of Environmental Management) pubblicano articoli sul suo lavoro e sull’efficacia dei suoi progetti. Il sito del Premio Nobel (nobelprize.org) contiene la sua biografia ufficiale, il testo del discorso del Nobel e altri materiali di archivio.

Siti web e archivi ufficiali sono un’ulteriore fonte di informazioni, come quello del movimento fondato da Wagari (The Green Belt Movement), con informazioni aggiornate sulle sue iniziative, progetti e programmi di riforestazione e quello dell’UNEP, che ha lavorato a stretto contatto con lei e ha documentato molte delle sue attività ambientali. Vi è poi la fondazione creata per portare avanti il suo lascito, con materiali educativi e aggiornamenti sui progetti in corso, raggiungibile a questo indirizzo  Wangari Maathai Foundation.

Numerosi sono anche i film e dei libri ispirati alla sua storia. Wangari Maathai: The Woman Who Planted Millions of Trees” di Franck Prévot e Aurélia Fronty, pubblicato nel 2015, un volume illustrato per bambini che racconta la sua storia in modo coinvolgente. Wangari’s Trees of Peace: A True Story from Africa, del 2008 e opera di Jeanette Winter, un altro bellissimo libro per bambini, che evidenzia il suo impatto sulla riforestazione. Mama Miti: Wangari Maathai and the Trees of Kenya di Donna Jo Napoli e Kadir Nelson, edito nel 2010, una narrazione poetica sulla sua missione di piantare alberi e cambiare il mondo.

Oltre al Nobel la nostra testimone venne insignita di numerosi premi internazionali, tra cui il Global 550 dell’ONU e il Goldman Environmental Award

Riportiamo infine alcune citazioni tratte dal discorso tenuto in occasione del conferimento del Nobel per la pace.

«Sono qui di fronte a voi e al mondo, onorata per questo riconoscimento e per essere innalzata a vincitrice del Premio Nobel per la Pace 2004. Come prima donna africana a ricevere questo premio, lo accetto a nome del popolo del Kenya e dell’Africa, e naturalmente del mondo».

«Penso innanzitutto alle donne e alle bambine, e spero che questo premio farà sentire le loro voci e creerà più spazio di potere per loro».

«Anche se questo premio viene assegnato a me, esso riconosce il lavoro di innumerevoli individui e gruppi in tutto il mondo che lavorano silenziosamente e spesso senza alcun riconoscimento per proteggere l’ambiente, promuovere la democrazia, difendere i diritti umani e garantire la parità fra donne e uomini. Ciò facendo, piantano semi di pace».

«Nel premio di quest’anno, il Comitato Norvegese per il Nobel ha voluto sottolineare la questione critica dell’ambiente e il suo legame con la democrazia e con la pace davanti al mondo. Per la loro azione lungimirante, sono loro profondamente grata».

«Riconoscere che lo sviluppo sostenibile, la democrazia e la pace sono indivisibili è un’idea che è giunta l’ora di sviluppare».

«Nel 1977, quando abbiamo avviato il Green Belt Movement, io stavo in parte rispondendo a esigenze individuate dalle donne delle aree rurali, in particolare la mancanza di legna da ardere, di acqua potabile pulita, di diete bilanciate, alloggi e redditi».

«In tutta l’Africa, le donne sono le prime persone a prendersi cura della casa e della famiglia, e a loro spettano significative responsabilità per coltivare la terra e nutrire le loro famiglie».

«Quella di piantare alberi è diventata una scelta naturale per affrontare alcuni dei bisogni primari iniziali individuate dalle donne. Inoltre, piantare alberi è semplice, si può fare sempre e ovunque e garantisce risultati buoni e rapidi in un arco di tempo ragionevole».

«Le donne non si rendevano conto del fatto che la soddisfazione dei propri bisogni dipendeva dal fatto che l’ambiente fosse salubre e ben gestito».

«Per poter assistere le comunità nella comprensione di questi nessi, abbiamo sviluppato un programma educativo per i cittadini, durante il quale le persone identificavano i loro problemi, le cause e le possibili soluzioni».

«Anche se inizialmente la piantumazione degli alberi da parte del Green Belt Movement non era riferita a questioni come la democrazia e la pace, presto è diventato evidente che la gestione responsabile dell’ambiente era impossibile senza uno spazio democratico».

«Quindi l’albero è diventato un simbolo della lotta democratica in Kenya».

«Certamente, lo stato dell’ambiente in ogni Paese è in riflesso del tipo di governo che vi opera, e senza buon governo non ci potrebbe essere pace».

«Sono fiduciosa che le soluzioni alla maggior parte dei nostri problemi devono venire da noi stessi».

«Mi appello ai governi affinché riconoscano il ruolo di questi movimenti sociali nel costruire una massa critica di cittadini responsabili, che contribuiscano a esercitare un controllo democratico nella società».

«Voi siete un dono per le vostre comunità e certamente per il mondo. Siete la nostra speranza e il nostro futuro».

«Gli africani, specialmente, dovrebbero riscoprire gli aspetti positivi della loro cultura. Accettandoli, si garantirebbero un senso di appartenenza, identità e fiducia in sé».

«Oggi, 50 anni più tardi, il fiumiciattolo si è prosciugato, le donne camminano per lunghe distanze per l’acqua, che non è sempre pulita, e i bambini non sapranno mai che cos’hanno perso. La sfida è di ripristinare la casa dei girini e riportare ai nostri figli un mondo di bellezza e meraviglia».

«Nel corso della storia, arriva un tempo in cui l’umanità è chiamata a passare a un nuovo livello di consapevolezza. Questo tempo è adesso».