Sea-Watch 3: stabilire la verità

Il fatto

Per essere precisi il Fatto del mese non è avvenuto a luglio, ma suoi effetti hanno caratterizzato anche le settimane successiva al momento culminante della vicenda.

All’una e trenta del 29 giugno, infatti, la nave battente bandiera olandese e appartenente all’omonima ONG attraccava nel porto di Lampedusa dopo 17 giorni in mare, con la quarantina di migranti che erano a bordo.

Seguono l’arresto della comandante della nave e la decisione del giudice per le indagini preliminari di non convalidare il fermo. Proseguono le polemiche politiche e lo scatenamento dei social.

Ma il fatto ha dimensioni molto più ampie, riguarda il fenomeno delle migrazioni.

Ma il fatto ha dimensioni molto più ampie, riguarda il fenomeno delle migrazioni: vediamo brevemente ciò che riguarda solo la Sea-Watch.

Sono diverse le organizzazioni che nel Mediterraneo prestano soccorso a gruppi di migranti in difficoltà sulle loro precarie imbarcazioni: la Sea-Watch è una di queste. La sua nave con oltre 60 persone tratte in salvo si dirige, come indicato dalle normative internazionali, verso il porto sicuro più vicino. Questo prevede, in particolare, la convenzione di Amburgo del 1979, cui l’Italia ha aderito con la Legge n. 147/1989, che contempla l’obbligo di prestare soccorso ai naufraghi e di farli sbarcare nel primo “porto sicuro” sia per prossimità geografica al luogo del salvataggio sia dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. La Libia non è considerato un porto sicuro, anzi secondo l’Onu i naufraghi riportati in Libia sono ordinariamente ricondotti nei campi di concentramento, caratterizzati da condizioni assolutamente negative. Lo stesso vale per la Tunisia, non attrezzata per garantire i bisogni dei migranti e priva di una legislazione completa sulla protezione, essenziale per garantire il rispetto dei diritti. Dirigere la nave verso le due nazioni africane avrebbe significato, dunque, violare le leggi internazionali in materia di navigazione e soccorso. Per questo l’imbarcazione fa rotta verso Lampedusa che, per posizione geografica, rappresenta appunto il porto sicuro più vicino. È vero che in Italia è entrato in vigore il così detto ‘Decreto sicurezza bis’, però è altrettanto corretto obbedire a una legge di rango superiore: infatti come previsto dall’articolo 117 della Costituzione, un trattato internazionale ratificato e reso esecutivo nell’ordinamento italiano crea dei vincoli al legislatore; inoltre, quando si tratta di tutela dei diritti umani, le convenzioni internazionali prevalgono, appunto, sulle leggi nazionali. 

Dopo giorni di trattative, anche per trovare un accordo tra lo stato italiano e altri paesi per il trasferimento dei migranti, con la nave al largo dell’isola siciliana, la comandante decide di forzare la mano e di entrare in porto adducendo ragioni di emergenza, ovvie dopo le quasi tre settimane di permanenza in mare. Nella concitazione vi sono momenti di rischio e tensione in quanto una motovedetta della Guardia di Finanza che cerca di impedire l’attracco viene urtata nella manovra, secondo quanto affermato dalla comandante per un errore.

La capitana è subito in stato di fermo con l’accusa di aver violato l’articolo 1100 del codice della navigazione, resistenza o violenza contro nave da guerra, che prevede una pena dai tre ai 10 anni di reclusione, e di tentato naufragio, previsto dagli articoli 110 e 428 del Codice penale, sanzionato con la pena massima di 12 anni. 

Le polemiche politiche proseguono, ad esempio sulla nave erano presenti alcuni esponenti delle opposizioni e sulla banchina manifestavano sostenitori dell’ONG e i contrari allo sbarco.

Dopo qualche giorno la comandante ha chiesto alla magistratura italiana di procedere nei confronti del ministro dell’Interno per i reati di diffamazione e istigazione a delinquere. Infine, per ora, è tornata in Germania.

Le cronache sul caso sono state abbondanti, quindi rimandiamo a esse per ulteriori elementi e approfondimenti.

Il commento

Le questioni attorno alla vicenda sono riassumibili in alcuni punti.

Il salvataggio di chi si trova in difficoltà in mare, qualunque sia la ragione, è connesso col l’obbligo per ogni nave di intervenire. La destinazione, come già visto, è stabilita dalle convenzioni e dal diritto internazionale: il porto sicuro più vicino. Terso elemento è il braccio di ferro avvenuto in mare tra il governo italiano e la nave, infine vi è l’accusa alla comandante di aver usato una qualche forma di violenza contro una nave da guerra nell’attracco.

Questi i principali elementi del fatto. Vi è poi la questione più generale del fenomeno migratorio. Non desideriamo entrare nel merito, riteniamo importante sottolineare come la problematica ha dei risvolti squisitamente politici, soprattutto sul piano internazionale. È su questo terreno che andrebbe affrontata la cosa, in primo luogo nel contesto dell’Unione Europea, con una seria revisione del Regolamento di Dublino e con un ruolo significativo e costruttivo dell’Italia in tale direzione.

Sul versante del nostro Paese sarebbe utile una maggiore chiarezza e trasparenza sui dati, iniziative politiche e legislative tese a mettere al centro la dignità delle persone, a cominciare dagli italiani, ma in modo corretto. Probabilmente, concludendo queste rapidissime considerazioni, con un profondo ripensamento della politica colonizzatrice, di influenza e di sfruttamento delle risorse che l’occidente ha sempre condotto, imitata oggi anche da altre potenze. Insomma, affrontare in modo deciso e realistico i temi “dell’aiutare a casa loro” e della lotta alle disuguaglianze.

Tornando al fatto in esame la risposta alle questioni prima citate non può che avvenire in sede giudiziaria e non sui social, con i tweet o con gli insulti.

Il caso Sea Watch merita quindi davvero un processo, un tribunale. Non tanto per dirimere la contesa fra la comandante, o l’ONG, e il ministro dell’interno, o il governo italiano, ma per ristabilire trasparenza, ordine e diritto in una vicenda che coinvolge la dignità di tutti e che viene giocata sulla pelle di poveri esseri umani. Vi è la legge italiana, vi sono i trattati e le convenzioni internazionali, vi sono i diritti umani universali stabiliti dall’Onu e tanta giurisprudenza relativa.

Tutto ciò deve essere tenuto insieme e non stiracchiato a seconda delle convenienze politiche o di facile consenso.

È importante poi chiarire i sospetti intorno al ruolo e alle finalità delle ONG, e questo potrà avvenire solo con indagini e prove tipiche di un’aula giudiziaria, col coinvolgimento di tutti gli attori.

Si tratta di capire e assumere la consapevolezza dei diritti e dei doveri di tutti, del senso vero della libertà, dei valori in generale, ma per tutti.

La giustizia alla quale bisogna aspirare è quella di essere strumento a servizio della persona umana: come affermava Antonio Rosmini, non la persona ha diritto, ma la persona è diritto.

Speriamo che sia fatto tutto questo.

Le fonti

Come sopra ricordato le cronache e i commenti sulla vicenda sono stati numerosissimi, invitiamo chi desiderasse approfondire a una ricerca sul web. In particolare desideriamo segnalare una serie di articoli comparsi su Avvenire (è sufficiente in qualsiasi motore di ricerca digitare “avvenire sea watch” per accedere alla documentazione).

Per quanto concerne le normative internazionali e nazionali qualcosa abbiamo citato: anche in questo caso invitiamo i più curiosi ad approfondire.

Molte ONG impegnate nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo hanno abbandonato il loro impegno circa un anno fa a causa delle pressioni esercitate dal governo italiano e per l’aggressività della cosiddetta guardia costiera libica. Fra queste ci sono fra le altre Medici Senza Frontiere, Save the Children e Migrant Offshore Aid Station (MOAS).

Attualmente alcune continuano a essere operative.

La Sea-Watch è tedesca ed è nata nel 2014, gestisce la Sea-Watch 3, una nave lunga 50 metri e larga 12 costruita nel 1973, per molti anni usata come rifornitore per le piattaforme in alto mare. Nei primi dieci mesi del 2018, quelli a cui si riferisce l’ultimo bilancio pubblicato online, l’ONG ha ottenuto donazioni per 1,8 milioni di euro, la maggior parte dei quali da donatori privati. Con queste risorse ha anche reso operativo un piccolo aereo, il Moonbird, che sorvola il tratto di mare fra Italia e Libia alla ricerca di imbarcazioni in difficoltà. Sea Watch sostiene di avere contribuito al soccorso in mare di 35.000 persone.

Anche la Sea-Eye è tedesca, più precisamente della Baviera, ed è stata fondata nel 2015. Negli anni ha ricevuto diverse donazioni dalle Chiese evangelica, cattolica e anabattista: 50.000 euro, ad esempio sono arrivati a febbraio dalla Chiesa cattolica tedesca per volontà del cardinale Reinhard Marx, presidente della conferenza dei vescovi. Gestisce la nave Alan Kurdi, costruita nel 1951 e per decenni utilizzata per esplorazioni scientifiche. La nave batte bandiera tedesca, è lunga 39 metri e larga 7 e viene usata per operazioni di soccorso soltanto da alcuni mesi.

Nel Mar Mediterraneo è tornata anche la nave Open Arms della ONG spagnola Pro Activa Open Arms, dopo un periodo di inattività dovuto soprattutto a una questione col governo spagnolo, infatti è emerso che il governo di Pedro Sanchez aveva di fatto impedito all’organizzazione di compiere altri soccorsi nel Mediterraneo, forse per evitare che si ripetessero situazioni come quella della scorsa estate, quando la nave Aquarius di SOS Mediterranee fu costretta a navigare fino a Valencia dopo il rifiuto del governo italiano di rendere disponibili i propri porti. A inizio luglio, poco dopo che la Open Arms aveva deciso di tornare in mare nonostante il divieto, El Diario ha pubblicato una lettera indirizzata alla ONG in cui il direttore generale della marina mercantile spagnola minaccia di infliggere una pesante multa in caso di nuove operazioni di soccorso. ProActiva Open Arms è nata nel 2015 e da allora sostiene di avere soccorso circa 59.000 persone nel tratto di mare fra Italia e Libia e in quello fra Grecia e Turchia. Secondo Repubblica nel 2018 ha ottenuto 3,5 milioni di euro, la stragrande maggioranza da donatori privati. Attualmente usa Open Arms, un’imbarcazione che batte bandiera spagnola lunga 37 metri e larga 10, costruita nel 1974 e in passato di proprietà della Guardia costiera spagnola, un’altra delle sue imbarcazioni, la Astral, è stata oggetto di una campagna di raccolta fondi per finanziarne i lavori di manutenzione.

L’ultima delle associazioni arrivate a soccorrere persone nel tratto fra Libia e Italia si chiama Mediterranea Saving Humans, nata nel 2018 come una rete di associazioni. Mediterranea è il soggetto che ha più legami con la politica fra quelli che soccorrono i migranti: il capo di una delle prime missioni è stato Luca Casarini, ex storico capo dei no global italiani, mentre un altro responsabile degli interventi è Erasmo Palazzotto, deputato di LeU. Mediterranea gestisce due navi battenti bandiera italiana, per ora entrambe sotto sequestro dalle autorità italiane: la Mare Jonio, un ex rimorchiatore costruito nel 1972 lungo 38 metri e largo 9, e la barca a vela Alex, lunga appena 18 metri e decisamente poco attrezzata per il soccorso di naufraghi, probabilmente utilizzata per missioni di ricognizione. Il prestito per acquistare la Mare Jonio era stato concesso da Banca Etica, ed è stato ripianato con una campagna di raccolta fondi che ha raccolto finora circa 827mila euro. Dopo il sequestro della Alex, avvenuto domenica 7 luglio, la portavoce di Mediterranea Alessandra Sciurba ha detto che l’associazione troverà un altro mezzo per proseguire le operazioni.

Pilotes Volontaires invece è una ONG francese nata nel gennaio del 2018, che con un piccolo aereo monomotore, il Colibrì, sorvola il tratto di mare fra Italia e Libia per segnalare eventuali imbarcazioni in difficoltà. Ogni missione costa fra i 600 e i 1000 euro, e il bilancio dell’organizzazione è fatto soprattutto di donazioni private: un anno di missioni costa circa 300.000 euro.