Pietro Bartolo: il giuramento di Ippocrate

Il personaggio

C’è nella storia un formale impegno che attiene a una professione, quella del medico. Il riferimento antico è nel testo di un greco, vissuto circa tra il 460 e il 380 a.C., considerato il padre della medicina, Ippocrate di Kos. Attualmente il suo giuramento è stato formulato in termini moderni, conservando il senso tradizionale. Il terzo punto asserisce con grande chiarezza che il compito del medico è «di curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna, promuovendo l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza nella tutela della salute».

L’affermazione si presta bene a descrivere il senso di quasi trent’anni di impegno lavorativo di Pietro Bartolo, medico a Lampedusa, quell’isola italiana in mezzo al Mediterraneo, calamita per le disgrazie collegate al fenomeno delle migrazioni.

La sua biografia è semplice, quasi banale, come quella di tante persone.

È nato nell’isola siciliana il 10 febbraio del 1956 in una famiglia di pescatori, si è laureato in medicina e chirurgia all’Università di Catania per poi conseguire la specializzazione in ginecologia. È sposato ed ha tre figli.

Nel 1988 è stato nominato responsabile del gabinetto medico dell’Aeronautica militare a Lampedusa e dal 1991 è stato ufficiale sanitario delle isole Pelagie. Nel 1993 è divenuto responsabile del presidio sanitario e del poliambulatorio di Lampedusa, che dipendono dall’ASP di Palermo. Dal 1992 si occupa delle prime visite ai migranti che sbarcano nell’isola e di coloro che sono ospitati nel locale centro di accoglienza. Nel 2011 è stato nominato coordinatore di tutte le attività sanitarie nelle Isole Pelagie dall’allora assessore alla Salute della Regione Siciliana.

È stato eletto consigliere comunale a Lampedusa e Linosa dal 1988 fino al 2007, ricoprendo anche la carica di vice sindaco e assessore alla sanità del comune delle Pelagie dal 1988 al 1993. Alle ultime votazioni per il parlamento europeo è stato eletto con oltre 135.000 preferenze ed è stato nominato vicepresidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni.

Per il suo impegno si è meritato numerose onorificenze, tra cui il titolo di “Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana”, nel 2014 e di “Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana” nel 2016, conferiti dal presidente della Repubblica; il premio Sérgio Vieira de Mello a Cracovia nel 2015, per essersi distinto tra «coloro che si adoperano per la coesistenza e cooperazione pacifica tra società, religioni e culture» e il premio Don Beppe Diana.

Il commento

Negli incontri che lo vedono protagonista, per raccontare la sua esperienza di medico, Pietro Bartolo parla semplicemente, in modo diretto, senza enfasi né drammatizzazione, ma facendosi aiutare dalle immagini: fotografie e video che, avverte sovente, faranno stare male, tanto sono crudi.

Ecco, un primo elemento da porre in risalto è l’essere protagonista senza cercarlo, senza esagerare nei torni, ponendo avanti a tutto i fatti nella loro capacità di trasmettere informazioni e sentimenti, di provocare. I fatti che interpellano e chiedono di operare fattivamente, nel proprio ambito: per lui quello di medico in una sperduta e centralissima isola del nostro mare.

Cercare di fare bene il proprio lavoro, anche se il prezzo da pagare è alto e sarebbe più semplice fare altro, andare altrove o girare la testa dall’altra parte per non guardare. Ecco un secondo spunto, ciascuno deve impegnarsi consapevole del valore e del senso del lavoro, nella dimensione personale come in quella sociale, di contributo verso gli altri e la società nel suo complesso. I problemi che caratterizzano l’occupazione da tempo toccano anche questi aspetti collegati al senso della vita e al ruolo di ciascuno.

Il medico di Lampedusa dedica molto tempo a portare la sua testimonianza in giro per l’Italia e non solo, significa dare rilevanza all’informazione, alla comunicazione, al dialogo, indispensabili nel vivere civile, indispensabili per affrontare le problematiche, soprattutto le più complicate. Senza conoscenza e confronto non si possono aggredire le questioni e chi ne è coinvolto deve farle conoscere e condividerle.

Un messaggio che connota i suoi interventi è l’importanza di aiutare gli altri, a cominciare da quelli più in difficoltà e da quelli più vicini. Ciascuna persona dovrebbe interrogarsi su cosa fare per il prossimo, scegliendo in base alle proprie capacità e inclinazioni, al tempo a disposizione: non c’è quindi una ricetta valida per tutti, se non l’invito ad agire.

Una parola che Pietro Bartolo ripete spesso è rispetto: forse è una delle chiavi per trattare il fenomeno delle migrazioni. Rispetto per le condizioni dei paesi dai quali la gente fugge significa decidere di contribuire perché i motivi che spingono a scappare siano affrontati; rispetto per chi desidera lasciare il proprio paese può voler dire gestire i permessi di soggiorno con una presenza proprio nei paesi d’origine, in modo da valutare motivazioni, professionalità e quanto altro sia necessario per decidere l’accoglienza e favorire l’inserimento; rispetto per chi arriva si esprime in modalità rispettose, appunto, della dignità della persona, accordi internazionali tesi a condividere responsabilità. Rispetto per i paesi ospitanti e i loro cittadini significa una precisa volontà di inserimento da parte di chi arriva, desiderio di integrazione, volontà di non urtare gli usi e le culture di chi accoglie.

Rispetto, in conclusione, vuol dire pensare che nessuno vorrebbe scappare dal posto in cui vive se non per ragioni profonde e drammatiche. Il nodo centrale è capire queste ragioni, individuare i problemi sottostanti e porvi rimedio, anche se possono apparire enormi e insormontabili; risolvendo la questione alla radice, facendo in modo che nessuno “debba” spostarsi perché costretto.

I racconti e la testimonianza di Pietro Bartolo probabilmente non sono semplici da capire, e un modo sbagliato di accoglierli è di farlo da “tifosi”, sarebbe necessario che fossero occasione per sentirsi interpellati, per porsi di fronte alle proprie responsabilità e alla nostra coscienza, per tenere il cervello allenato e il pensiero critico sempre sveglio.

Le fonti

Del suo lavoro poco si è parlato in questi anni, anche per il tipo di personaggio, schivo e riservato, quindi ancor meno della sua persona.

Un ottimo riferimento per colmare questa lacuna è rappresentato dal libro “Lacrime di sale”, scritto in collaborazione con la giornalista Lidia Tilotta nel 2016. Ha pubblicato poi nel 2018 “Le stelle di Lampedusa” dedicato al racconto delle storie di molti bambini sbarcati nell’isola siciliana.

In una puntata della trasmissione Geo Pietro Bartolo è stato intervistato, qui è disponibile il video.

Il regista Gianfranco Rosi ha realizzato un documentario, del quale è disponibile il trailer a questo indirizzo, allo scopo di descrivere alcuni aspetti delle tragedie che avvengono nel mare di Lampedusa; il lungometraggio è stato candidato all’Oscar come miglior documentario e ha vinto il l’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2016.

In rete si possono trovare ulteriori articoli e notizie sul medico di Lampedusa.

Proponiamo alcune frasi rintracciate nel WEB che aiutano a comprendere l’esperienza e le idee del nostro testimone.

«Come medico ho due record: in 28 anni ho visitato 350 mila persone e ho fatto più ispezioni cadaveriche di tutti i medici del mondo.»

«È in corso una mattanza. Un genocidio. Non è un nuovo olocausto, è peggio.»

«Quando i campi di concentramento furono liberati la gente disse che non sapeva. Noi invece sono trent’anni che sappiamo.»

«I migranti non portano malattie, al contrario di quanto si sente dire ogni tanto, certo, quando arrivano queste persone hanno tutti i segni del durissimo viaggio che hanno compiuto, come disidratazione e ipotermia, i segni delle torture e delle violenze, ma certamente non si tratta di malattie infettive che possono far preoccupare.»

«L’invasione è la più grande bugia che ci raccontano, quando si parla di migranti: in 28 anni ho visitato circa 350.000 persone, sono numeri ridicoli. Però quando si sentono questo tipo di notizie poi le persone si spaventano, hanno paura, e reagiscono nel modo sbagliato.»

«Migrare vuol dire scoprire un mondo nuovo che speriamo possa divenire dimora accogliente della nostra esistenza. Qualunque sia la ragione, si cambia luogo per cambiare la propria vita e a tutti spetta il diritto di costruirsi una vita migliore.»

«La professione medica per me è una missione, ma il mio impegno nasce dalla mia coscienza come uomo: a me interessa far conoscere la verità alle persone. I valori sono quelli che danno un senso alla nostra vita, e i diritti umani ne costituiscono una parte fondamentale.»

«Non potrò mai dimenticare tutti quei bimbi dentro ai sacchi neri, vestiti a festa, come i nostri. Le mamme li avevano preparati per far far loro bella figura in Europa.»

«Mi avvisano di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo in qualcosa che sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita. Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti li, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro – spiega il medico di Lampedusa – con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare.»

«Ma ci sono anche cose belle, cose che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio. Sembrava morta. Ho cominciato a massaggiarla a lungo e all’improvviso l’ho ripresa. È stata ricoverata 40 giorni. Si chiama Kebrat e ora vive in Svezia. È venuta a trovarmi dopo anni e aspettava un bambino.»

«Non mi importa assolutamente nulla del perché sei venuto qui, se sei o no regolare, se scappi dalla guerra o se vieni a cercare fortuna: arrivare così, non è umano. E meriti le nostre cure. Meriti un abbraccio. Meriti rispetto. Come, e forse più, di ogni altro uomo.»

«I migranti sono persone, non numeri.»