Luigi Bettazzi: profeta di giustizia e di pace

Ci sono coincidenze particolari nella vita delle persone. Una di queste lega due vescovi che per qualche anno condivisero il ministero e furono poi sempre legati fino alla scomparsa del più anziano. Si tratta di due fatti accaduti nel 1968 uniti dal tema della pace.

Il 12 febbraio di quell’anno, infatti, l’Arcivescovo di Bologna cardinale Giacomo Lercaro si dimise, ufficialmente per motivi di salute, in realtà a causa di un’omelia pronunciata il 1° gennaio, in occasione della prima giornata della pace voluta da Paolo VI, nella quale condannò con fermezza la guerra del Vietnam e i bombardamenti americani, invitando gli USA a ritirarsi e porre fine all’aggressione. La presa di posizione provocò la protesta del governo statunitense e il disappunto della Curia vaticana che provocarono la richiesta di dimissioni.

Il giovane ausiliare che aveva collaborato con lui dall’agosto 1963 fino alla nomina a vescovo di Ivrea il 26 novembre 1966, Luigi Bettazzi, nello stesso 1968 divenne presidente nazionale di Pax Christi, il movimento cattolico internazionale per la pace.

La vita

Luigi Bettazzi nacque a Treviso il 26 novembre 1923, dove il padre lavorava e ove trascorse l’infanzia, per poi trasferirsi in gioventù a Bologna, città di origine della madre. Il 4 agosto 1946 fu ordinato presbitero dal Cardinale Giovanni Battista Nasalli Rocca di Corneliano, arcivescovo metropolita di Bologna. Si laureò in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma e poi in filosofia presso l’Università degli Studi Alma Mater di Bologna. Nel capoluogo felsineo insegnò presso il Pontificio Seminario Regionale e fu impegnato nei movimenti giovanili, in qualità di assistente diocesano e vice-assistente nazionale degli universitari cattolici della FUCI.

Il 10 agosto 1963 papa Paolo VI lo nominò vescovo titolare di Tagaste e vescovo ausiliare di Bologna, ricevendo l’ordinazione episcopale il successivo 4 ottobre nella basilica di San Petronio, per le mani del Cardinale Giacomo Lercaro.

Partecipò alle ultime tre sessioni del Concilio Vaticano II, al termine del quale, il 26 novembre 1966, fu nominato vescovo di Ivrea, prendendo possesso della diocesi il 15 gennaio 1967. Divenuto, come sopra accennato, presidente italiano di Pax Christi, fu eletto presidente internazionale nel 1978, restando in carica fino al 1985 e vincendo il Premio Internazionale Unesco per l’Educazione alla Pace.

Fecero notizia le lettere aperte inviate al segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, nel 1976, e a Carlo De Benedetti, allora presidente e amministratore delegato della Olivetti, nel 1979. Nella prima, la cui risposta arrivò l’anno successivo, operò il tentativo di superare i timori legati al passato per mostrarsi sensibile ai fermenti del presente e guardare a un futuro di speranza e di fiducia nell’uomo e nella sua capacità di cercare il bene. «Mi sembra legittimo e doveroso, per un vescovo – si legge nella missiva – aprirsi al dialogo, interessandosi in qualche modo perché si realizzi la giustizia e cresca una più autentica solidarietà tra gli uomini. Il “Vangelo”, che il vescovo è chiamato ad annunciare, non costituisce un’alternativa, tanto meno una contrapposizione alla “liberazione” dell’uomo, ma ne dovrebbe costituire l’ispirazione e l’anima».

La seconda, pubblicata dal settimanale diocesano Risveglio popolare, conteneva una dura critica sulla decisione dell’azienda di ridurre il personale.

Nel 1978, insieme ai vescovi Alberto Ablondi e Clemente Riva si offrì alle Brigate Rosse come ostaggio al posto del leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro.

Celebri furono pure le sue prese di posizione in merito all’obiezione fiscale alle spese militari e all’obiezione di coscienza quando per quella si rischiava il carcere, nonché la partecipazione, nel 1992, alla marcia pacifista organizzata a Sarajevo da Beati costruttori di pace e Pax Christi insieme a monsignor Antonio Bello nel mezzo della guerra civile in Bosnia ed Erzegovina.

Il 20 febbraio 1999 papa Giovanni Paolo II accolse la sua rinuncia, per raggiunti limiti di età, al governo pastorale della diocesi di Ivrea, divenendone vescovo emerito.

Non cessò la sua attività di pastore, portando la sua parola dove richiesto.

Ogni anno continuò a partecipare alla Marcia della pace, e di non violenza parlò anche in una manifestazione del maggio scorso a Ivrea, la Staffetta dell’Umanità, alla quale volle presenziare, come una delle strade da percorrere per la pace nell’Ucraina martoriata. Un video lo ritrae in piedi, stretto al suo bastone, mentre esortava a seguire tre obiettivi: creare una mentalità nonviolenta, mettere in atto gli strumenti della diplomazia, sviluppare forze di interposizione.

Si è spento il 16 luglio scorso nella sua residenza di Albiano d’Ivrea; sulla sua bara, durante il funerale, una copia del Vangelo e la bandiera della pace.

Il commento

Luigi Bettazzi è stato l’ultimo testimone italiano del Vaticano II, mentre nel mondo oggi sono rimasti solo in quattro. È da questo fondamentale evento per la Chiesa contemporanea che è necessario partire, poiché del Concilio egli è stato un divulgatore vivente: per lui andava sottolineato il senso pastorale, più che quello dogmatico, strumento per l’annuncio della fede, soprattutto ai “lontani”.

Ma non può comunque rinchiudersi in schemi «una persona così umanamente ricca, culturalmente poliedrica e teologicamente stimolante», come ha scritto L’Osservatore Romano.

Il Vaticano II

Innumerevoli le domande postegli sul Concilio. Una serie riguardava i documenti. Il più “bello” era ritenuto la Dei Verbum «che ha rimesso la Parola di Dio nelle mani e nel cuore di tutti i battezzati». Quello più attuato? «Probabilmente la Costituzione Sacrosanctum Concilium, che ripropone la liturgia come preghiera di tutto il popolo di Dio. Anche se oltre l’uso delle lingue volgari, non si è fatto molto per superare il clericalismo, la prevalenza cioè del clero (e non solo nella liturgia); e oggi c’è una spinta per il ritorno all’antico con il pretesto che è più mistico». Rispondeva perfino alla difficile domanda sul più importante: «Antipatico dover scegliere, ma direi la Costituzione Gaudium et spes, che cambia prospettiva. Non più Chiesa giudice severa e cittadella assediata, ma aperta a leggere i segni dei tempi, compagna di strada dell’uomo. Magari fossimo capaci di attualizzarne fino in fondo lettera e spirito».

Infatti per lui molto rimaneva e rimane da fare per rendere vita concreta quella che definiva la «rivoluzione copernicana» contenuta nell’ultima costituzione, che presenta una chiesa per l’umanità e non viceversa, e nella Lumen gentium per la quale non sono i fedeli per la gerarchia, bensì il contrario. La sua visione era dunque di un Concilio da continuare ad attuare.

La Chiesa

Significativa per comprendere la sua prospettiva è l’adesione al Patto delle catacombe. Il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari, in particolare latinoamericani, si recarono nelle Catacombe di Domitilla a Roma per celebrare un’Eucaristia al termine della quale tutti i vescovi firmarono il famoso Patto con cui esortavano i «fratelli nell’episcopato» a praticare una «vita di povertà», una Chiesa «serva e povera», come suggerito da Giovanni XXIII. L’impegno fu poi sottoscritto da centinaia di partecipanti al Concilio e consegnato al Papa dal cardinal Lercaro.

Il Patto ha caratterizzato l’esistenza di Luigi Bettazzi, in una vita più semplice nelle abitazioni e nei mezzi di trasporto, nell’attenzione e nella vicinanza ai poveri e ai lavoratori manuali, a quelli che soffrono e che sono in difficoltà.

Importante anche il riferimento al suo primo intervento nell’assise conciliare, dedicato alla collegialità episcopale, riferita alla pressi della chiesa romana primitiva.

Infine è da sottolineare il suo impegno per la riforma della Chiesa e il dialogo con il mondo ispirati dalla Lumen Gentium e dalla Gaudium et spes.

La pace

Il Vangelo è stato il riferimento della vita di Luigi Bettazzi e il criterio con cui interpretò il senso del Vaticano II, rifacendosi a un’espressione di papa Giovanni, a commento della Gaudet mater ecclesia, il suo discorso di apertura del Concilio, ripresa da Francesco: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». E il Vangelo lo ha spinto sempre a cercare la pace, la «pace in terra», la Pacem in terris: un messaggio da lui portato sempre e ovunque, fedele al nome del movimento da lui presieduto per molti anni e uno dei cuori del Vangelo.

Una pace da costruire anche con gesti clamorosi: mettendosi in piazza con gli operai che scioperavano e con i pacifisti che manifestavano per essa e l’obiezione di coscienza, contro le guerre, le spese militari e l’energia nucleare. Ma non solo, perché credeva soprattutto nella necessità di educare alla pace e alla nonviolenza, che è lo stile di una politica atta a perseguirla; auspicava quindi il disarmo, la riconversione dell’industria bellica, la fine dei blocchi militari e la critica al complesso militare e industriale che ha tanta responsabilità nel creare e alimentare le guerre.

La politica

La citata lettera al segretario del PCI Enrico Berlinguer, e altre, come quella all’omologo della Democrazia Cristiana Zaccagnini, sono segnali significativi dell’importanza attribuita all’impegno politico per la costruzione di una comunità nella quale si perseguisse il bene comune. Significa inoltre il desiderio di superare steccati, di dialogare, ha rappresentato il riconoscimento dell’adesione al partito di Berlinguer di tanti cattolici: «Penso a quelli che hanno votato per voi e sono cristiani, e non intendono rinunciare alla loro fede religiosa, che anzi – forse nella sofferenza per la “disobbedienza” alla gerarchia – pensano così di promuovere una società più giusta, più solidale, più partecipata, quindi più cristiana». È importante citare un passaggio della risposta del segretario, nella quale afferma che il PCI è «né teista, né ateista, né antiteista» e che «Noi comunisti vogliamo una società organizzata in maniera tale da essere sempre più aperta e accogliente anche verso i valori cristiani; non vogliamo, però, una società “cristiana” o uno Stato “cristiano”: e non già perché siamo anticristiani, ma solo perché sarebbero anch’essi una società e uno Stato “ideologici”, integralisti».

Bettazzi, mente illuminata, aveva percepito la necessità di guardare avanti per il bene di tutti, superando timori passati, nonché l’esigenza di essere sensibili ai fermenti che operavano, aperto alla speranza verso il futuro, alla fiducia nella persona umana.

Per lui si trattava di essere fedele al Vangelo e alla storia, nella prospettiva dell’incarnazione, di impegnarsi nel sociale per condividere le gioie e i dolori dell’umano.

Il ricordo

Un «grande appassionato del Vangelo che si è distinto per la vicinanza ai poveri, diventando segno profetico di giustizia e di pace in tempi particolari della storia della Chiesa», questo ha affermato papa Francesco.

Di Bettazzi il presidente della CEI Zuppi ha rimarcato: «Il sorriso, la gentilezza, la fermezza, l’ironia, la capacità di leggere la storia e di portare il messaggio di pace sono stati i suoi tratti essenziali». Tratti che «ci lascia come eredità preziosa per camminare al fianco degli uomini e delle donne del nostro tempo».

Il cardinale Arrigo Miglio, arcivescovo emerito di Cagliari, che fu suo successore alla guida della diocesi di Ivrea nel 1999, nell’omelia durante i funerali ha evidenziato il valore per Bettazzi delle sue radici nelle chiese di Treviso e Bologna, l’incontro con Charles de Foucauld e il deserto, il forte legame con la montagna e le sue «scalate più ardue», quelle del suo impegno per la giustizia e la pace.

Il messaggio

Come sintetizzare il senso della sua lunga e intensa vita in poche parole? È stato un uomo di pace e di scelte importanti, talvolta radicali, noncurante delle critiche; probabilmente un vescovo scomodo con uno spirito missionario e profetico, profondamente inserito nel mondo senza esserne parte, in una prospettiva giovannea. Una persona diretta e coerente, forse dura, pur nel suo essere gioviale e socievole (leggendaria la sua capacità di raccontare barzellette, anche sui papi). Uno strenuo sostenitore del dialogo: con credenti, non credenti, altre comunità religiose.

Un uomo che non ha mai smesso di cercare ed essere curioso: si racconta che anche a 99 anni prendesse appunti sul suo quadernetto e che dopo una conferenza avrebbe detto: «Che bello, avessi saputo queste cose prima sarebbero state di grande aiuto».

Le fonti

La sua scomparsa ha suscitato una vasta eco, testimoniata dal gran numero di servizi a lui dedicati sugli organi di stampa. La documentazione per approfondirne la figura è quindi estremamente abbondante.

Come pure ampia la sua bibliografia, e per scegliere un testo c’è solo l’imbarazzo della scelta: tra le sue opere sono da ricordare: La Chiesa dei poveriViva il Papa! Viva il popolo di DioDifendere il Concilio; Aprirsi agli altri, aprirsi a Dio. Ragione, intelligenza, fede nella nostra vita; Io e noi, Riflessioni politiche e religiose; Carne e spirito. Adamo, Gesù Cristo… e la pace fra gli uomini.

Tra le biografie citiamo Luigi Bettazzi, Un vescovo costruttore di pace di Alberto Vitali e Ricordi, vita e pensiero in Luigi Bettazzi di Luca Rolandi e Michele Ruggiero.

Numerosi anche i video, tra i quali sono da citare alcune interessanti interviste. Di grande attualità un suo discorso su come fare la pace in Ucraina e nel mondo.

Infine, ecco alcune sue citazioni.

«Quando Dio ha creato il mondo ha detto: “Guarda, mi piace un mondo in cui ci sia anche Luigi Bettazzi… È un tipaccio, ma mi va anche bene così. E questa cosa l’ha pensata per ciascuno di noi”.

Questa è la grande luce in cui siamo, anche in mezzo a tante difficoltà».

«Non sono mai stato capace di comandare, neanche ai miei preti. È inutile che dica ad uno: “Devi andare là…” se lui non ne ha voglia. Ne parliamo insieme, ci persuadiamo… In 32 anni ho dato solo una volta un’obbedienza a un prete. Lui mi disse “Ci vado volentieri, ma dammi l’obbedienza, così se mi viene un momento di crisi dico: l’ho fatto per obbedienza”».

«C’è nel Vangelo una frase di San Giovanni che dice “Se uno crede in Gesù Cristo sarà salvo, se non crede sarà condannato…” Ma a leggere bene nell’originale, che è in greco, si capisce che non è “credere in Gesù Cristo” perché, dicono gli esperti che non c’è mai il verbo credere seguito da uno stato in luogo. Allora bisogna avanzare la virgola: “chi crede, in Cristo sarà salvo”, cioè chi si apre a Dio come l’ha conosciuto, chi si apre agli altri è salvo per Gesù Cristo, anche se lui non lo sa».

«La non violenza è l’unica via possibile per la pace. Lo stop al proliferare degli armamenti è l’unica cosa “logica” per prevenire guerre future».