Aspettativa di vita: un’Italia diseguale

L’Italia è al quinto posto nel mondo per aspettativa di vita, con una media superiore a 82 anni (quasi 80 per gli uomini e poco più di 84 per le donne), ma crolla al ventesimo posto per la spesa media pro-capite, a parità di potere d’acquisto, lo rileva una ricerca del network statunitense NiceRx che ha analizzato i dati di diversi paesi mettendo a confronto i due elementi.

In merito alla durata dell’esistenza, però, approfondendo le informazioni, si scoprono alcune differenze, altre a quella di genere, sul piano geografico, sociale ed economico, e su tutto ciò alcune settimane fa il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un’approfondita inchiesta.

I duri dati

Il dato sulla longevità è incoraggiante: in poco più di un secolo l’età media degli italiani si è raddoppiata. Arrivare a ottant’anni in Italia è di questi tempi la norma e morire prima è meno probabile rispetto ad alcuni anni fa. Arrivare a compiere 90 è una prospettiva sempre più diffusa.

C’è un ma: se le donne italiane vivono in media circa quattro anni in più degli uomini, quelle che risiedono in Calabria o in Campania muoiono tre anni prima di quelle toscane; se invece paragoniamo l’età media di una donna della provincia di Bolzano (87,3) gli anni perduti in meridione arrivano a quasi quattro. Per gli uomini la Campania è la regione con la più bassa durata della vita (in media due anni e sette mesi in meno della media nazionale). La regione del Nord che detiene il record assoluto della longevità è il Trentino Alto-Adige, mentre quella settentrionale con una minore aspettativa è il Piemonte; nel Sud le tre regioni con più bassi tassi di longevità sono la Campania, la Calabria e la Sicilia. I tumori sono responsabili di 1/3 degli anni perduti in tutto il Sud, su questo incidono la mancata diagnosi precoce e le cure in ritardo o non adeguate, cioè le carenze dell’organizzazione ospedaliera e territoriale. Anche se vi sono alcune aree della Sardegna e della Calabria con il più alto numero di centenari in rapporto alla popolazione.

Un po’ di storia

La situazione, però, non stava in questi termini solo 40 anni fa. In un libro dal titolo L’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988 lo storico Silvio Lanaro ricordava che all’inizio degli anni Ottanta del Novecento la speranza di vita di chi risiedeva nel Nord era in media di quasi due anni inferiore rispetto a chi viveva al Sud. La disparità era attribuita alla cosiddetta “mortalità da progresso”, cioè al fatto che lo sviluppo industriale e lo stress da benessere causavano più tumori e infarti, mentre un ambiente più incontaminato e meno sfruttato industrialmente come quello meridionale, insieme a ritmi meno logoranti, consentiva quasi due anni di vita in più. Se si riprendono le statistiche ufficiali relative al 2001 emerge come la situazione attuale non era così appena vent’anni fa. Nel 2001 si viveva in media 82,9 anni per le donne e 76,7 anni per gli uomini, e le donne sarde, lucane, pugliesi, molisane e abruzzesi vivevano di più della media nazionale, mentre quelle della Calabria erano in linea. La medesima situazione valeva per gli uomini, solo i campani erano sotto la media nazionale con entrambi i sessi. Ed è singolare verificare come in Piemonte e Valle d’Aosta, Liguria, Friuli Venezia-Giulia e in Lombardia l’età media nel 2001 era inferiore alla media nazionale.

Nel giro di poco più di 40 anni, e con un’accelerazione negli ultimi 20, la situazione si è totalmente capovolta. Le statistiche sanitarie ci mostrano come, attualmente, chi vive nel Sud muore in media due anni e mezzo prima di chi risiede al Nord e al Centro. Cos’è cambiato in modo così radicale e rapidamente per giungere a un simile capovolgimento, pur non dimenticando l’allungamento della vita che ha riguardato l’Italia intera?

Perché?

Ciò è dovuto a più fattori. In sintesi: l’allargamento del benessere rispetto alle epoche precedenti, l’istruzione di massa che ha consentito nuovi stili di vita, l’aumento dell’attività sportiva, la riduzione del fumo, il miglioramento delle condizioni di lavoro e la minore esposizione a rischi per la salute grazie alle lotte delle organizzazioni sindacali, la ricerca scientifica che anche in Italia ha raggiunto buoni livelli, ma soprattutto la riforma sanitaria del 1978 che ha garantito l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini a prescindere delle condizioni economiche dei singoli.

Purtroppo, questo generale innalzamento delle aspettative di vita incontra tre limiti: uno ha a che fare con il sesso, l’altro con le condizioni di reddito e di istruzione, il terzo con la residenza. Il dato quindi non è omogeneo, anche se porta l’Italia nel suo complesso tra i primissimi posti al mondo per aspettativa di vita, come abbiamo visto.

Le donne vivono più a lungo, ed è questo un dato generale della popolazione mondiale, anche se in Italia la forbice si sta in parte riducendo. L’aspettativa di vita ha poi delle variazioni in base al reddito e al titolo di studio, e cambia, come mostrato, a seconda dei territori in cui si risiede, delle strutture sanitarie in cui si è curati e della capacità di prevenzione dei diversi sistemi sanitari.

Perché si muore prima nel Sud?

Sono innanzitutto le diverse condizioni economiche che incidono sulla maggiore o minore possibilità di allungare gli anni di vita. La povertà pesa quasi quanto la sedentarietà, l’ipertensione, l’obesità, l’alcolismo, l’esposizione strutturale a cause di tumori e di leucemie. Poter acquistare tutti i farmaci necessari, godere delle cure prescritte senza preoccupazioni economiche, alimentarsi in maniera adeguata, seguire uno stile di vita più salutare, sono queste condizioni importanti per allungare la vita, soffrire di minori problemi nella vecchiaia e sopravvivere a una malattia grave. E poiché ci sono più poveri e più indigenti nelle regioni meridionali, ciò ha una profonda influenza.

Incide molto anche il livello di istruzione. Le persone con titoli di studio più bassi in media muoiono prima: in Italia un laureato ha una speranza di vita superiore di cinque anni rispetto agli altri. Chi svolge lavori fisicamente più pesanti è esposto maggiormente a un logoramento del corpo in età matura, e chi ha un più alto livello di istruzione possiede più informazioni sulle migliori cure a disposizione per i suoi mali.

Ma se fossero solo questi tre fattori le cause delle disuguaglianze nelle aspettative di vita, come si spiega il fatto che negli anni Ottanta si viveva più a lungo al Sud nonostante le condizioni economiche fossero già allora peggiori che al Nord?  Evidentemente ci sono altri fattori che sono diventati decisivi per la longevità della popolazione, cioè le diverse risorse e le diverse strutture sanitarie a disposizione, il modo differente di essere curati al Nord e al Sud, di fare prevenzione sul territorio o riabilitazione dopo una malattia invalidante. C’è una nuova geografia della longevità e il Sud è agli ultimi posti.

La regionalizzazione della sanità incide sugli anni di vita

I maggiori poteri in materia sanitaria alle Regioni coincidono con la radicale trasformazione della durata media della vita degli italiani. La disuguaglianza delle prestazioni sanitarie sembra incidere sulle aspettative di vita come, se non più, delle condizioni economiche o di istruzione. La regionalizzazione della sanità ha reso i cittadini diversi di fronte alla vita e alla morte. Si vive di più o di meno non solo per scelte soggettive, come mangiare male, fumare, bere alcolici, fare lavori pesanti, possedere meno soldi, andare di meno in vacanza, ad esempio, ma anche per condizioni oggettive dei territori in cui si risiede e in cui sorgono le strutture sanitarie. Dove si sommano condizioni economiche difficili a prestazioni sanitarie insufficienti, il destino è abbastanza segnato.

Dal 2009 al 2016 le quattro più grandi regioni meridionali hanno pagato oltre sette miliardi di euro alle regioni del Nord a causa della migrazione sanitaria. Quante strutture di eccellenza potevano essere costruite nel Sud con quelle risorse?

La questione era stata posta già nel 2016 dall’allora presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi: «In Campania e Sicilia si ha una speranza di vita alla nascita di 4 anni inferiore rispetto a Trentino e Marche: nelle prime due regioni siamo cioè a livelli di Bulgaria e Romania, nelle altre della Svezia». Poi si è constatato che neppure al Nord si era in presenza di una sanità di livello svedese e meno che mai in Campania.

La mortalità alla nascita

I dati che fanno più impressione e rabbia sono, infine, quelli relativi alla mortalità neonatale e all’emigrazione sanitaria dei piccoli malati di tumori o di leucemie. La morte alla nascita è maggiore del 40% al Sud e, secondo la Fondazione Gimbe, nelle regioni del Centro-Nord emigra l’85,5 dei pazienti sotto i 14 anni con malattie gravi. Si può immaginare cosa ciò voglia dire per una famiglia meridionale alle prese con un grave problema di salute di un figlio piccolo: oltre al dolore anche il disagio di un trasferimento in luoghi molto lontani dalla propria casa. Perché mai non si ponga un alt a questa situazione costruendo strutture adeguate nel Sud d’Italia è questione che sfugge a ogni ragionevole spiegazione.