Burocrazia: la semplicità difficile a farsi

Il fatto

In maggio i mezzi di informazione hanno riportato più volte una notizia: la cassa integrazione in deroga era in ritardo, come pure i 600 euro ai liberi professionisti e lo stesso poteva essere affermato dei contributi a sostegno delle imprese. «Troppa burocrazia, abbiamo bisogno di un’Italia più semplice», ha affermato il sindaco di Ravenna.

I problemi occupazionali e la crisi delle imprese sono una realtà mondiale. Negli Stati Uniti la disoccupazione è passata dal 3,5% del dicembre 2019 a circa il 15% di maggio, e gli osservatori sostengono che potrebbe anche arrivare al 20; il tessuto imprenditoriale del nostro paese è fatto da realtà di piccole dimensioni, le meno attrezzate per affrontare un presente e un futuro così difficoltosi. Quanto potrà durare la crisi? Come affrontarla?

Il ruolo delle autorità pubbliche, della politica, è di straordinaria importanza, ma un argomento fondamentale è la tempestività. Questo porta con sé delle considerazioni relative ai meccanismi di funzionamento dello stato e delle amministrazioni locali, delle procedure, dunque della legislazione e della burocrazia.

Dalla crisi prendiamo spunto per affrontare queste due problematiche ataviche e radicate del sistema italiano: la burocrazia e le normative, due tra le principali ragioni di molti fenomeni. E la loro semplificazione.

Troppe leggi, lunghe e difficili

Una questione che spesso viene citata quando si affrontano tali argomenti è il numero delle leggi. Sapere di preciso quante siano è compito arduo. Un articolo di giuridica.net riporta alcuni dati. Nel 2018 il ministro per i rapporti con il parlamento ha fatto sapere che sono 187.000 quelle emanate dall’unità d’Italia in poi. Il Poligrafico dello Stato parla di 111.000 leggi in vigore, considerando quelle pubblicate nella Gazzetta Ufficiale, non tenendo conto delle normative regionali e andando indietro solo fino al 1916, non considerando i regi decreti precedenti ancora validi, come lo sono 21 atti firmati da Mussolini (!).

Un dettaglio sui numeri e sulla tipologia viene offerto da Normattiva, il portale dello stato dedicato a quelle vigenti: si tratta di 46.000 decreti del presidente della Repubblica, 13.000 leggi, 7.736 regi decreti, 2.042 decreti legislativi, circa 2.000 altri decreti. E ciò solo per il periodo 1932-2016, cui vanno aggiunti i 70 anni precedenti e il periodo successivo: si arriva al totale di 111.000 prima evidenziato, senza contare la normativa regionale. Una cifra non esatta (altre stime portano a un numero superiore a 150-160.000), ma che fornisce l’ordine di grandezza del problema.

Tanto per fare dei paragoni, le leggi in vigore il Francia sono stimate il 7.000, in 5.500 quelle di riferimento in Germania e in 3.000 quelle del Regno Unito.

Un’ulteriore complicazione è portata dalla consuetudine di emanare leggi con uno schema a “piramide”, ovvero provvedimenti non autoapplicativi, che hanno bisogno a loro volta di decreti attuativi. Un esempio: dal febbraio 2014 al maggio 2016 il governo Renzi ha approvato oltre 300 provvedimenti legislativi che hanno generato più di 800 decreti attuativi, contenenti ulteriori prescrizioni, approfondimenti tecnici, collegamenti alle normative precedenti. E ritardi nelle emanazioni.

Non parliamo poi del linguaggio. Questo dovrebbe essere a misura del “cittadino medio”, con forma e parole chiare e comprensibili. Il contrario di quanto avviene. E dire che nel 2002 il Ministro per la Pubblica Amministrazione aveva diffuso una Direttiva sulla semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi. Lo scopo era di «contribuire alla semplificazione del linguaggio usato dalle amministrazioni pubbliche per la redazione dei loro testi scritti. Le amministrazioni pubbliche utilizzano infatti un linguaggio molto tecnico e specialistico, lontano dalla lingua parlata dai cittadini che pure ne sono i destinatari. Invece, tutti i testi prodotti dalle amministrazioni devono essere pensati e scritti per essere compresi da chi li riceve e per rendere comunque trasparente l’azione amministrativa».

Un altro elemento è la loro lunghezza. Tre esempi. Nel 1962 il parlamento approvò 437 leggi che occupavano circa due milioni di caratteri, nel 2012, quarant’anni dopo, furono meno di un quarto, 101, ma sviluppate in oltre due milioni e mezzo di caratteri. Il direttore di un istituto di ricerca qualche anno orsono provò a riscrivere la legge di riforma dell’università: il suo lavoro risultò di 7.000 caratteri contro gli originali 20.000, apparentemente senza snaturarne il contenuto. Il terzo esempio è recentissimo: il decreto “Rilancio” è vicino alle 500 pagine, rivaleggiando quasi con I promessi sposi (592 pagine nell’edizione Garzanti). Certo la materia era vastissima, ma non si poteva fare diversamente?

Le leggi, poi, cambiano rapidamente. Certo, il mondo nella nostra epoca muta in fretta ed è necessario adeguarsi: ma questo vale anche per le legislazioni? Oppure tale necessità deriva da una non sufficiente capacità di interpretare le situazioni, di studiare i fenomeni per rispondere sul piano politico e amministrativo? Anche qui un esempio: il codice dei contratti pubblici, fondamentale per il funzionamento della pubblica amministrazione, è stato emanato nel 2006, modificato sei volte nei tre anni seguenti e sostituito da uno nuovo nel 2016, già ripetutamente emendato.

Numero, linguaggio, complessità e prolissità richiedono esperti per interpretarle e gestirle e una schiera di funzionari, di gradi differenti, per sovrintendere gli iter e fornire le necessarie approvazioni, vale a dire una grossa burocrazia.

Una burocrazia pesante e disprezzata

La CNA di Mestre ha stimato ad esempio che per aprire un salone di acconciatura occorre rivolgersi a 26 enti diversi, fare 39 file, 65 adempimenti e spendere circa 18 mila euro. Le piccole e medie imprese potrebbero essere sottoposte a visite e accertamenti per oltre 120 controlli da una ventina di soggetti pubblici. Sul piano dei costi una stima quantifica in circa 23 miliardi di euro all’anno la spesa sostenuta da esse per la burocrazia: sono oltre 5.000 euro per azienda.

Abbiamo ricordato, in un’altra circostanza (Il Rapporto Censis: l’Italia dell’incertezza), come il Censis abbia evidenziato la percezione dei cittadini sull’argomento: una rappresentazione sfavorevole, con un peso troppo forte degli adempimenti.

Da un’indagine della Commissione Europea sulla qualità della pubblica amministrazione emerge che l’Italia si colloca al 23° posto sui 28 stati monitorati, e solo Ungheria, Croazia, Grecia, Romania e Bulgaria registrano delle performance inferiori alla nostra. Tra le 192 regioni dell’UE, la prima realtà italiana è il Trentino-Alto Adige, che si colloca al 118° posto, seguita da Emilia-Romagna (127), Veneto (128) e Lombardia (131). Negativo il giudizio sulle regioni del Sud, infatti nelle ultime dieci posizioni della classifica generale ve ne sono quattro del nostro Mezzogiorno. La regione più virtuosa d’Europa è stata valutata la finlandese Åland, maglia nera, invece, per la bulgara Severozapaden.

Altre indagini si sono occupate dei giudizi di imprenditori e cittadini sulla complessità delle procedure amministrative. Tra 8.000 imprenditori europei intervistati nel 2017 dal Flash Eurobarometer, l’84% degli italiani ha risposto che l’eccessiva regolamentazione rappresenta un grosso problema; solo in Grecia (87%), in Romania (86%) e in Francia (85%) le difficoltà sono risultate essere superiori alle nostre. Percentuali decisamente più contenute sono emerse in Germania (51%), Spagna (49%) e Regno Unito (19%). Tenendo conto che la media dei 28 paesi dell’Unione Europea si è attestata al 60% la differenza appare evidente. La situazione non migliora quando sono interpellati i cittadini. Secondo l’indagine Standard Eurobarometer del 2018, solo il 29% degli italiani intervistati giudica di buon livello i servizi pubblici dello Stato; stanno peggio di noi solo Bulgaria (28%), Croazia (26%) e Grecia (14%), con la media UE al 53%.

L’auspicio è che sotto la spinta della necessità di accelerare gli interventi in risposta al Covid-19 si avviino serie e decisive iniziative di risoluzione dei problemi evidenziati; anche se, purtroppo, i primi indizi non sono incoraggianti: le imprese segnalano che per accedere alla misura fondamentale prevista per gli interventi in loro favore, la garanzia dello Stato sui prestiti bancari, sia necessario produrre una cospicua mole di carte, fino a 19 diversi documenti.

 

 

 

Il commento

Accelerare la semplificazione

Lo storico romano Tacito scrisse nei suoi Annales: «corruptissima re publica plurimae leges», ossia «moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto». Forse il giudizio per il nostro paese è un po’ esagerato, ma il problema rimane. Soprattutto tenendo conto del fatto che la riforma moderna della pubblica amministrazione è iniziata con la famosa legge 241 del 7 agosto 1990: giusto 30 anni fa. La normativa era ispirata appunto dalla volontà di semplificare, secondo i principi di efficacia, economicità e tempestività.

Va anche detto, per essere franchi, che negli ultimi anni il tema non è stato sufficientemente presente nell’agenda politica, rispetto ad esempio alla fine del secolo scorso, anche se il Dipartimento per la funzione pubblica ha continuato a lavorare. La pandemia ha riportato in primo piano la questione, e sarebbe necessario affrontarla seriamente e operativamente.

Cosa significa

Semplificazione amministrativa vuol dire rendere più chiaro, facile, comprensibile e snello il funzionamento della pubblica amministrazione. Significa tagliare procedure e adempimenti inutili: cioè eliminare tutto quello che è superfluo o addirittura dannoso per il suo buon funzionamento. Spesso, però, non si può tagliare, perché certi passaggi non si possono rimuovere senza provocare danni maggiori dei vantaggi dell’eventuale semplificazione; in questi casi semplificare significa riuscire a trovare modi diversi, più agevoli, rapidi ed economici per ottenere lo stesso risultato di procedure più complesse. Significa anche razionalizzare la legislazione, semplificare i testi delle normative, stabilire precise competenze.

Secondo il Dipartimento la semplificazione «è la politica che ha l’obiettivo di semplificare le norme e le procedure e di ridurre gli oneri burocratici a carico dei cittadini e delle imprese. L’obiettivo si raggiunge attraverso l’utilizzo di molteplici strumenti: innovazione normativa, organizzativa e tecnologica». Poi aggiunge: «La semplificazione oggi si fonda su una logica di risultato. Quello che conta non sono le norme introdotte o eliminate, ma l’effettiva riduzione dei tempi e dei costi. Le leggi da sole non bastano, se non cambiano la vita dei cittadini».

La semplificazione amministrativa non è un fine, ma un mezzo per migliorare il rapporto dei cittadini, dei soggetti economici, delle formazioni sociali con l’amministrazione, nonché, ovviamente, per cambiare in meglio la stessa PA e il lavoro di coloro che vi operano, nonché per risparmiare. In questo senso si spiega perché essa venga anche considerata come sinonimo di riforma amministrativa, cioè di un cambiamento complessivo dell’amministrazione finalizzato a rendere la sua azione più efficiente, rapida ed economica.

Cosa fare

Quali possono essere le misure da adottare? Innanzitutto, è necessario lavorare sul quadro normativo; cercare di non sovrapporre più livelli di governo sullo stesso argomento e accelerare i tempi di risposta. Occorre migliorare la qualità e ridurre il numero delle leggi, utilizzare un linguaggio accessibile, analizzare più attentamente il loro impatto su cittadini e imprese; monitorare gli effetti delle misure attuate per poter introdurre correttivi quando necessario; consolidare l’informatizzazione della PA rendendo i siti più accessibili e i contenuti più fruibili; far dialogare le banche dati pubbliche, rendere prassi corrente l’interoperabilità; favorire la compilazione per via telematica delle istanze, puntando all’uso esclusivo di tale strumento; completare la standardizzazione della modulistica; porre in essere procedure che non richiedano ai cittadini informazioni già in possesso della PA; accrescere la professionalità dei dipendenti pubblici attraverso un’adeguata e continua formazione.

La situazione attuale è l’occasione per lanciare un’iniziativa in grande stile, che metta al centro la semplificazione, utilizzando e arricchendo di competenze e di sensibilità gli organismi già attivi; attraverso una forte azione di informazione e comunicazione, di interazione con i cittadini e le associazioni.

È indispensabile avviare un’intensa azione educativa. In fondo è un po’ anche colpa nostra se siamo in questa situazione: in un paese con cittadini più responsabili, dove i “furbi” sono considerati un problema per la collettività, molto probabilmente semplificare sarebbe più facile e molti elementi frenanti dovuti alla necessità del controllo scomparirebbero. Un’educazione alla cittadinanza responsabile, consapevole e attiva sarebbe di grande aiuto.

Quali vantaggi

Semplificazione, può sembrare banale affermarlo, renderebbe più semplice la vita ai cittadini e alle imprese.

La semplificazione può portare con sé una serie di vantaggi. In primo luogo di tipo economico: meno tempo da dedicare, meno chilometri da fare, meno carta da stampare; spese inferiori per una minore necessità di rivolgersi a professionisti da pagare; per il benessere, ridimensionando lo stress del seguire gli adempimenti. Risparmio per la PA, una sua maggiore efficienza, avendo un carico di lavoro inferiore.

Semplificare è anche un deterrente per combattere la corruzione, che nella complessità e nella farraginosità si annida e prospera trovando spazi per oliare il sistema.

Gestire una gara d’appalto con strumenti esclusivamente telematici, anziché con il meccanismo arcaico dei documenti che vanno prodotti per essere verificati e riverificati, permetterebbe di concluderla in pochi giorni, con ovvi risparmi di tempi e costi; verrebbero meno anche discrezionalità pericolose, e molti ricorsi.

Con minore carico di gestione delle pratiche la PA potrebbe dedicarsi di più al monitoraggio e al controllo. Come pure alla verifica dei risultati dei processi di semplificazione.

Il Governo ha affermato di voler aggredire la questione. Speriamo di essere in grado di cogliere l’opportunità.

 

 

Le fonti

Per approfondire il “fatto” dal quale siamo partiti è sufficiente riprendere le notizie giornalistiche di queste settimane, ad esempio sui vari decreti.

Il Dipartimento per la funzione pubblica ha una pagina WEB dedicata alla semplificazione.

I principi guida della semplificazione

Essa deve essere rivolta a una maggiore qualità dell’azione amministrativa. Deve essere guidata da alcuni postulati costituzionali i cui obiettivi sono l’indipendenza dell’amministrazione nell’esercizio delle sue funzioni e garantire l’imparzialità nei confronti dei cittadini utenti. Tali principi sono quello di legalità, rispettare le norme e i loro criteri, e di buona amministrazione, vale a dire seguire le modalità più idonee e opportune al fine di garantire efficacia, efficienza, speditezza e economicità dell’azione amministrativa.

La semplificazione, permettendo la concreta attuazione dei principi generali, costituirebbe la soluzione. Essa è sottesa, infatti, al principio di semplicità, che costituisce un importante corollario dei concetti di buon andamento, economicità ed efficacia; consente inoltre di perseguire l’interesse della collettività attraverso linee programmatiche e di azione qualitativamente e quantitativamente ottimali.

Per evitare il perpetuarsi dei fenomeni negativi presenti nell’azione amministrativa, cui si accompagna il diffuso convincimento dell’inadeguatezza delle strutture pubbliche, sono state proposte quattro differenti linee di azione nel corso del tempo: la delegificazione (le norme amministrative indispensabili sono contenute in atti regolamentari, più agevolmente modificabili); la deregolamentazione (eliminare le regole non strettamente indispensabili); la semplificazione vera e propria dei procedimenti, che vengono ridotti ai soli elementi essenziali; la cosiddetta deamministrativizzazione, che comporta la sottrazione di intere aree di attività alle regole amministrative.

Un po’ di storia

L’inizio del processo di semplificazione risale all’inizio degli anni Novanta, quando la Commissione di studio sull’attuazione della legge n. 241 del 1990 pubblicò i risultati del proprio lavoro, che ponevano in risalto un dato allarmante: le attività amministrative erano disperse in una moltitudine di procedimenti, a loro volta frammentati in più fasi, soggetti a una disciplina legislativa spesso contraddittoria e confusa.

Le conseguenze ricadevano sull’utenza, soprattutto per la complessità delle procedure e i tempi lunghi, e indirettamente sull’Amministrazione stessa, vittima della sfiducia diffusa e incapace di elaborare autonomamente soluzioni efficaci.

Il primo periodo della semplificazione passa attraverso due distinti momenti. Anzitutto, attraverso l’art. 2 della legge n. 537 del 1993, che introdusse nuovi criteri di semplificazione dei procedimenti, i cui effetti furono un’estesa delegificazione, l’introduzione della razionalizzazione e della uniformazione dei singoli procedimenti relativi al medesimo argomento, anche se in capo ad Amministrazioni differenti, e la liberalizzazione di attività private, ad esempio eliminando controlli non necessari o favorendo soluzioni quali il silenzio assenso.

Il secondo passaggio, il più importante, si realizzò attraverso l’art. 20 della legge n. 59 del 1997, conosciuta come “legge Bassanini”, che operò una modifica integrativa dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988, che stabiliva il potere regolamentare del governo, nel quadro della disciplina del ruolo e delle funzioni della presidenza del consiglio. Il sistema introdotto prevedeva la proposta del governo, al parlamento, di un progetto di semplificazione entro il 31 marzo di ogni anno. Dopo tale approvazione l’esecutivo era incaricato di emanare decreti legislativi di semplificazione nelle materie indicate dalla delega. In tal modo si regolamentano i processi in maniera più rapida e nel rispetto dei principi posti dal legislatore, a garanzia della democraticità della scelta.

La seconda fase della semplificazione si caratterizzò per la ricerca di una migliore qualità nella produzione delle norme: nelle tecniche di stesura, per una maggiore chiarezza, ma soprattutto nella riduzione del numero delle disposizioni. A tale scopo il 27 febbraio 1994 fu emanata una Direttiva del presidente del consiglio con la quale si introducevano nell’ordinamento le Carte di qualità dei servizi, tese a recepire e concretizzare in norme giuridiche il complesso dibattito sulla qualità dell’azione amministrativa. A questa iniziativa ne seguirono altre per potenziare gli standard qualitativi dei procedimenti amministrativi: l’istituzione degli Uffici di relazione con il pubblico e l’emanazione dei cosiddetti “Codici di stile”, contenenti i principi basilari per l’elaborazione di testi normativi chiari e comprensibili, in grado di agevolare i rapporti con l’utenza.

La terza fase è stata contraddistinta per una battuta d’arresto quando, nel 2001, si operò una radicale riforma del Titolo V della Costituzione, modificando la suddivisione delle competenze tra Stato e Regioni. Fu introdotto un nuovo strumento di semplificazione: quello dei Testi Unici misti, così definiti perché comprendono norme di natura legislativa e regolamentare.

Dopo si fece spazio lo strumento della codificazione, cioè un processo che consiste nell’opera di ordinamento sistematico e completo di un insieme di norme giuridiche per sfociare nella costituzione di un codice o di una raccolta di leggi.

Lo stallo, a parere degli osservatori competenti, è stato dovuto alla citata riforma costituzionale che ridisegnando le competenze statali e regionali ha generato incertezza sulle attribuzioni, frenando il processo di semplificazione, nel dubbio di chi dovesse affrontare le diverse materie. Un secondo motivo è connesso al venir meno dell’interesse della politica sul tema e di personaggi che tenessero viva l’attenzione, come ad esempio negli anni Novanta; un ulteriore elemento è di carattere strutturale: poiché negli ultimi anni tali strutture amministrative si sono, in molti casi, organizzate con elementi di casualità e di disordine, la semplificazione ne è risultata frenata, poiché un procedimento snello, per essere tale, deve poter essere posto in essere da un’Amministrazione funzionale e strutturata in modo semplice.

Le leggi di riferimento

La n. 241 del 1990; la n. 59 del 1997 (prima legge Bassanini); la n. 127 del 15 maggio 1997 (seconda legge Bassanini); la n. 191 16 giugno 1998 (Bassanini ter); la n. 50 dell’8 marzo 1999 (Bassanini quater), la prima legge di semplificazione annuale. Nel 2000 viene emanata la seconda legge di semplificazione annuale, la legge 24 novembre 2000, n. 340 (legge di semplificazione per il 1999).

Il programma di semplificazione riguarda anche la legislazione regionale (L.R. Friuli –Venezia Giulia, n. 17 del 28 agosto 2001, L.R. Puglia n. 25 del 4 settembre 2001, ecc.).

Qualche dato sui tempi della burocrazia

Un dossier messo a punto da tecnici della presidenza del consiglio afferma che ben il 54,3% del tempo dell’iter complessivo di un’opera pubblica si perde nella burocrazia, che provoca ritardi. Si tratta dei cosiddetti “tempi di attraversamento”, periodi di arresto tra una fase e un’altra, come ad esempio quelli che intercorrono tra l’affidamento e l’esecuzione dei lavori, perché deve esaurirsi un passaggio prima di andare a quello successivo.

Per le stime compiute, il tempo medio di realizzazione di una “grande opera”, quella con un importo superiore ai 100 milioni di euro, è di 15 anni e 7 mesi, dei quali però quelli occorsi alla burocrazia possono arrivare fino a 8 anni e mezzo, più della metà; per le opere tra i 50 e i 100 milioni, il tempo medio è di 12 anni e 2 mesi, con 6 anni e mezzo di procedure burocratiche. Quelle minori, tra i 5 e i 10 milioni, richiedono in media 7 anni e 9 mesi con “attese” di oltre 4 anni; e persino una piccola opera, sotto i 5 milioni di costo, necessita di 2 anni e sei mesi.