Crisi aziendali: le imprese beni comuni

Il fatto

Il torinese sta affrontando, forse più di altre zone del Paese, una serie di crisi aziendali, che portano con loro delicate e profonde problematiche personali e sociali.

In particolare in questo momento sono all’ordine del giorno tre aziende: la Mahle, l’ex Embraco ora Ventures e la Olisistem.

La multinazionale tedesca Mahle ha deciso di chiudere il sito produttivo di La Loggia e la fonderia di Saluzzo. La motivazione addotta per i due stabilimenti, che producono pistoni per motori del comparto automobilistico, è legata alla crisi dei propulsori diesel, con un rilevante calo della domanda di tali componenti. Coinvolti nella procedura di licenziamento collettivo sono circa 450 lavoratori con le loro famiglie.

La situazione per l’ex Embraco è più fluida, ma non meno preoccupante. L’insediamento produttivo e amministrativo della società controllata da Whirlpool, che forniva compressori per i suoi frigoriferi, è stato smobilitato e la struttura affidata a una holding italo-israeliana per un’operazione di trasformazione produttiva. I dipendenti sono per la maggior parte in cassa integrazione, salvo un gruppo reinserito e che doveva essere impegnato nel piano industriale di rilancio, mai avviato e in fase di ripensamento. L’impressione, dati i ritardi e lo stabilimento ancora vuoto di attrezzature, è di un’operazione mal riuscita e in procinto di fallire.

Il caso della terza impresa è ancora differente. Olisistem Start fornisce servizi di tecnologie per l’informazione e la comunicazione, nonché di call center, per numerosi e importanti clienti privati e pubblici, la sua sede in Piemonte è a Settimo Torinese. Nel 2017 è stata acquisita dal gruppo Alma che, nel 2018, è stato oggetto di indagini per una presunta evasione fiscale. Tali problemi hanno avuto ripercussioni anche sulla controllata Olisistem che ha perso commesse con i relativi danni al fatturato. Sono 400 gli addetti che rischiano il posto di lavoro.

Le tre realtà presentate sono solo alcune delle crisi aziendali presenti nel territorio piemontese; si possono aggiungere le situazioni problematiche di Pernigotti, Manitalidea, Mercatone Uno, Mantor e, non da ultimo, il contesto di FCA e del suo indotto.

Si tratta quindi di una congiuntura diffusa, grave e con forti ripercussioni su migliaia di famiglie e i territori in cui vivono.

 

 

 

Il commento

La Diocesi e in particolare l’Ufficio per la pastorale sociale e del lavoro è impegnata a portare un suo contributo per affrontare le crisi aziendali sopra ricordate e, in generale, tutte le situazioni problematiche che, purtroppo, sono presenti nel territorio torinese.

L’arcivescovo, monsignor Cesare Nosiglia, ha incontrato i lavoratori delle aziende in crisi: sul sito della Diocesi sono disponibili i testi degli interventi alla ex Embraco e alla Olisistem.

La fotografia con la quale apriamo la pagina si riferisce alla visita allo stabilimento Mahle.

Sul tema le Piccole Officine Politiche hanno chiesto un parere al Direttore Alessandro Svaluto Ferro, con un’intervista pubblicata anche sul settimanale diocesano La Voce e il Tempo.

 

Vediamo innanzitutto di cosa stiamo parlando.

La Diocesi sta seguendo l’evolversi delle vicende legate alle tre aziende metalmeccaniche: la Mahle, l’ex Embraco ora Ventures e la Olisistem, che dal punto di vista numerico coinvolgono 1.000 persone con le loro famiglie. Pur essendo molto diverse le ragioni delle crisi, che vanno dalla questione della delocalizzazione alla regolamentazione degli appalti nel settore privato, le tre realtà segnano punti comuni.

Il fenomeno della dismissione delle fabbriche per un trasferimento mirato a produrre in paesi che sostanzialmente abbattono il costo del lavoro è presente da molti anni, con un incremento a partire dalla fase più dura delle difficoltà economiche, il biennio 2008/2009. Seppure la narrazione mediatica ci porta a leggere la grande crisi internazionale come un fenomeno globale, bisogna rifuggire da letture etnocentriche, per cui sarebbe meglio parlare di crisi occidentale poiché per altri contesti ha rappresentato un’epoca di sviluppo, un’occasione di crescita.

 

Incontrando queste situazioni difficili e le persone coinvolte cosa hai percepito?

In modo particolare mi hanno colpito il disorientamento e il senso di impotenza. Dopo un primo sentimento di rabbia, infatti, si percepisce incertezza, timore per il futuro e solitudine. La persona si sente abbandonata in un momento di grande preoccupazione per la perdita del lavoro. Sono importanti quindi le mobilitazioni, anche per tenere alta l’attenzione su queste vicende, azioni di solidarietà e accompagnamento dei lavoratori.

Il secondo elemento, il senso di impotenza è davvero forte e diffuso. In chi è direttamente coinvolto dalle crisi, in quanto non riesce a percepire soluzioni possibili, nonché nei decisori, come i politici e i sindacalisti. Si tocca con mano la preponderanza delle logiche economiche e finanziarie sulle dinamiche produttive e del lavoro, con l’enorme difficoltà ad affrontare le realtà come quelle delle quali stiamo parlando.

 

Quali le possibili soluzioni?

Le situazioni sono enormemente complesse, ma alcuni passi potrebbero essere fatti. Innanzitutto attraverso la collaborazione tra tutti i soggetti e le istituzioni del territorio, con una logica che non tenti solo di affrontare, per la verità con scarsi successi, le emergenze, ma per interpretare e anticipare i fenomeni. Si tratta poi di mettere in atto risposte nuove ai problemi, ad esempio ponendo in evidenza le problematiche sociali derivanti dalle crisi aziendali. Un’impresa che abbandona un territorio dovrebbe essere costretta a co-gestire i contraccolpi che provoca.

La rete delle istituzioni, penso alle amministrazioni pubbliche, alle associazioni di rappresentanza degli imprenditori e dei lavoratori, al sistema bancario, dovrebbero attivarsi concretamente per trovare soluzioni. Per fare un esempio favorendo quello che viene chiamato workers buyout, vale a dire il recupero delle imprese operato direttamente dai dipendenti per garantire la continuità dell’azienda.

 

Hai citato la prevalenza che ha oggi l’economia. È importante collegare questo e il fare impresa alla dimensione etica?

Certamente. E gli aspetti sono molteplici. Un’azienda non è un bene solo privato, dei proprietari o degli azionisti, è un bene sociale, oserei dire un bene comune, ovvero una risorsa indispensabile del territorio nel quale è insediata. Questo non va mai dimenticato e deve diventare un elemento di valutazione delle situazioni.

È poi fondamentale la distinzione fatta un paio di anni addietro da papa Francesco in un discorso ai lavoratori dell’Ilva di Genova tra imprenditore e speculatore. Il primo è quello che investe sulle persone e sul territorio, mentre il secondo è colui che usa, che sfrutta, persone e territorio. La prima è una figura positiva la seconda no e dal punto di vista della fede commette un peccato.

Nella prospettiva del workers buyout vi è forte la dimensione partecipativa, di un modo diverso di fare impresa, col coinvolgimento di tutti e con responsabilità diffuse, mettendo al centro le persone, considerando il profitto come un mezzo e non un fine.

 

 

 

Le fonti

Presentiamo brevemente le imprese coinvolte nelle crisi citate.

La Mahle GmbH è una delle maggiori produttrici mondiali di componenti per il settore automobilistico, ha sede a Stoccarda, nella Repubblica Federale Tedesca. Si occupa di fornire parti per i motori, come pistoni, filtri e impianti elettrici. È un colosso dal fatturato vicino ai 12 miliardi di euro, con circa 79.000 dipendenti che lavorano in oltre 170 stabilimenti sparsi nel mondo e in 13 centri di ricerca con 5.000 tecnici specializzati e ingegneri. La multinazionale ha anche degli altri stabilimenti in Italia, a Grugliasco, Parma, Reggio Emilia e Trento.

La fabbrica ex Embraco di Riva di Chieri apparteneva a una società controllata dal gruppo Whirlpool e produceva compressori per frigoriferi, oltre a ospitare la sede centrale di Embraco Europe, comprendente lo stabilimento piemontese e uno slovacco, con oltre un migliaio di dipendenti dei quali oltre 500 solo nel nostro Paese. Nel gennaio del 2018 la società annunciava la chiusura del sito produttivo italiano, la concentrazione della produzione in Slovacchia ove i costi sono decisamente più bassi, con la garanzia del lavoro solo per meno di 40 addetti della filiale commerciale. Le trattative, che vedevano come protagonista anche il Governo, non hanno ottenuto un ripensamento dall’azienda, se non il congelamento dei licenziamenti e, nel luglio del 2019, il passaggio dello stabilimento e degli addetti al gruppo italo-israeliano Ventures.

La nuova proprietà ha ricevuto un fondo privato per la riconversione produttiva, mirata a realizzare robot per la pulizia dei pannelli fotovoltaici e, in prospettiva, sistemi per la depurazione delle acque, con un progressivo riassorbimento dei dipendenti, collocati in cassa integrazione. Il piano industriale non decolla.

Chi visitasse in questo momento la fabbrica si troverebbe di fronte a enormi spazi vuoti, privi di qualsiasi attrezzatura, con i pochi dipendenti che sembrano impegnati in operazioni senza senso.

La Olisistem Start è partecipata totalmente da Alma S.p.a., agenzia per il lavoro (!), che possiede molte società operanti nei settori della logistica, dei servizi postali, dei call canter e dell’ICT. A seguito delle vicissitudini giudiziarie, culminate con l’arresto dei proprietari per una presunta evasione fiscale da 70 milioni mediante compensazione indebita di crediti IVA, il gruppo è in concordato preventivo. A cascata i problemi si sono riversati sulla Olisistem, che possiede altre sedi, oltre a quella di Settimo, e dà lavoro a circa 1.900 dipendenti, dei quali 400 nel sito torinese. La società fornisce servizi a importanti società bancarie e assicurative, quali Reale Mutua e soprattutto Intesa Sanpaolo, il principale committente nell’area del capoluogo subalpino.

Nel commento del Direttore dell’Ufficio per la pastorale sociale e del lavoro è emersa una strada per affrontare le crisi aziendali: il workers buyout, o impresa rigenerata. Vale a dire società recuperata con un coinvolgimento diretto dei lavoratori che ne diventano i proprietari, salvaguardando i posti di lavoro e il know how acquisito.

Sono esperienze molto diffuse ad esempio negli Stati Uniti, presenti anche nel nostro Paese, seppure in forma ridotta. Il primo caso è datato 1978, allorquando i dipendenti del quotidiano di Livorno Il Telegrafo, divenuto poi Il Tirreno, acquisirono la proprietà del giornale.

Nel 1981 l’allora ministro dell’Industria Giovanni Marcora, il Testimone del mese nel nostro sito, a seguito di tale esempio e in risposta ad alcune crisi, in particolare quella di alcuni stabilimenti della Richard Ginori, avviò un percorso legislativo di facilitazione per le rigenerazioni aziendali, conclusosi solo nel 1985, per una serie di problematiche politiche e della scomparsa di Marcora, con l’approvazione di una legge che porta il suo nome. La normativa dovette subire in seguito, nel 2001, alcune modifiche per non essere interpretata come aiuto di Stato dall’UE.

Il meccanismo legislativo mira a mettere a disposizione dei lavoratori che intendono recuperare l’impresa costituendo una cooperativa alcuni strumenti finanziari indispensabili per realizzare l’obiettivo. L’acquisizione dell’azienda o di un ramo di essa, utilizzando anche la forma dell’affitto temporaneo, impiegando come risorse il trattamento di fine rapporto, le indennità di mobilità, i risparmi personali e finanziamenti, come ad esempio opera Banca Etica, consente di accedere al FonCooper, il fondo nazionale previsto dalla Legge Marcora, in grado di far raddoppiare il capitale sociale iniziale. Il finanziamento è deciso in base alle valutazioni svolte da due cooperative, Cooperazione finanza impresa (Cfi) e Soficoop, cioè gli investitori istituzionali che operano per conto dello Stato. Questo è un passaggio critico e fondamentale nel quale viene considerato il piano industriale, cioè il progetto di recupero della società: solo se l’esito è positivo il percorso prosegue e la nuova impresa può ricominciare a lavorare.

In merito ai finanziamenti gli esperti della materia sottolineano la scarsa attenzione del mondo bancario che non ha ancora fornito il supporto necessario, facilitando l’accesso al credito. I dati numerici pongono in risalto una distribuzione non omogenea dei progetti realizzati, in quanto sono concentrati soprattutto nelle regioni del Centronord e una preponderanza di imprese dai 10 ai 49 addetti, infatti tra le circa 260 aziende recuperate, dal 1986 al 2016, 176 appartengono a quella categoria. Per quanto riguarda il fondo statale, gli investimenti sono stati di poco superiori ai 220 milioni di euro per la salvaguardia di oltre 18.000 posti di lavoro, con un contributo medio per addetto di circa 12.000 euro, decisamente contenuto, e un ritorno economico per lo Stato pari a 7,3 volte il capitale impiegato, cioè per ogni euro speso ne sono ritornati più di sette, solo per il periodo compreso tra il 2008 e il 2016.

Come si evince appaiono poche le società recuperate, ma molto vantaggioso farlo, per tutti. Quindi sarebbe certamente importante incrementarne il numero per rispondere alle crisi, ma per fare ciò sarebbe necessario un impegno sinergico degli attori coinvolti: amministrazioni pubbliche, sindacati, centrali cooperative, associazioni imprenditoriali, mondo della finanza. Solo con uno sforzo congiunto, forti volontà e strumenti concreti, anche di informazione per far crescere conoscenza e cultura su questo strumento, sarebbe possibile rendere operativi tali percorsi e risolvere molte situazioni difficili.