Franco Basaglia: per una nuova psichiatria

Cento anni fa nasceva uno dei più noti psichiatri moderni, le cui posizioni nella disciplina e, in particolare, nella cura, hanno rappresentato una novità che ha provocato profondi cambiamenti.

Dalla sua esperienza è nata la legge che porta il suo nome, che ha trasformato l’ordinamento degli ospedali psichiatrici italiani e ha indirizzato la gestione dei disturbi mentali verso il rispetto della dignità della persona. Il suo pensiero si ampliava e andava oltre tale aspetto: «la conquista della libertà del malato deve coincidere con la conquista della libertà dell’intera comunità».

La vita

Franco Basaglia nacque a Venezia l’11 marzo del 1924, secondo di tre figli in una famiglia della media borghesia cittadina. Dopo il conseguimento della maturità classica nel 1943 si iscrisse a Padova per studiare medicina laureandosi nel 1949. In quel periodo frequentò un gruppo di studenti antifascisti, venendo anche arrestato per alcuni mesi, e si dedicò ad altri ambiti di studio, approfondendo tematiche filosofiche esistenzialiste e fenomenologiche. Nel 1952 conseguì la specializzazione in malattie nervose e mentali e l’anno seguente si sposò con Franca Ongaro. Nel 1958 ottenne la libera docenza in psichiatria incontrando non poche resistenze nel mondo accademico a causa delle sue idee: decise perciò tre anni dopo di lasciare la carriera accademica dopo aver vinto il concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico di Gorizia.

L’impatto con l’istituzione manicomiale fu durissimo, poiché era caratterizzata da trattamenti aberranti inflitti ai malati, non considerate persone in difficoltà e da aiutare, bensì soggetti da controllare, reprimere e nascondere. Ben presto iniziò a sostenere e praticare un modello di rapporto tra terapeuta e paziente basato su presupposti differenti rispetto a quelli in uso, come ad esempio il dialogo e il diritto alla cura. In tale campo modifica i metodi applicati e avvia un percorso di trasformazione dei manicomi in comunità terapeutiche nelle quali sparissero la contenzione, la chiusura e terapie quali l’elettroshock. Promosse laboratori di pittura e teatro, una cooperativa di lavoro e iniziò a considerare la possibilità di una totale chiusura degli ospedali psichiatrici, sostituiti da una rete di servizi per l’assistenza delle persone affette da disturbi mentali.

Il suo lavoro fu seguito e supportato da molti altri, tra i quali spicca sua moglie, insieme ad altri psichiatri, intellettuali e operatori sanitari.

Nel 1967 curò il volume Che cos’è la psichiatria?, e l’anno successivo pubblicò la sua opera fondamentale, L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, nel quale raccontò al grande pubblico l’esperienza di Gorizia, scritto con la collaborazione di Franca Ongaro e che ottenne un grande successo editoriale.

Nel 1970 lasciò Gorizia e si stabilì in provincia di Parma per dirigere l’ospedale di Colorno, dove rimase un anno, per poi spostarsi a Trieste come direttore del locale ospedale psichiatrico, ricevendo la possibilità di operare tutte le scelte ritenute opportune. Al suo arrivo i ricoverati erano 1182, 840 dei quali in regime coatto. L’ospedale è sotto l’amministrazione della Provincia che dà pieno appoggio al progetto di superamento del manicomio e di organizzazione psichiatrica territoriale proposto da Basaglia e dai suoi collaboratori. Infatti, appena insediato, egli chiede di poter costruire la sua équipe e presenta un programma di ristrutturazione dell’assistenza psichiatrica provinciale con un drastico ridimensionamento dell’ospedale attraverso l’apertura e la riorganizzazione dei reparti; si tratta ancora di porre fine all’isolamento del manicomio rispetto alla città, dando corso a un progetto politico che non si limiti al miglioramento delle condizioni nel manicomio, ma metta in discussione l’esistenza stessa dell’istituzione: il manicomio deve essere chiuso. È necessario quindi costruire una rete di servizi esterni, che provvedano alle necessità di assistenza per le persone dimesse e arrestino il flusso dei nuovi ricoveri. 

Due anni dopo l’Organizzazione mondiale della sanità, grazie all’impegno di Basaglia, indicò l’area triestina come zona pilota per l’Italia nella ricerca sulla salute mentale.

In quel periodo fondò con altri promotori la Società di Psichiatria Democratica, in un’ottica di profonda riforma della disciplina, e nel 1977 la sua azione portò all’effettiva chiusura dell’ospedale e il 13 maggio 1978 all’approvazione della legge 180, nota come “Legge Basaglia”, di riforma della psichiatria, che consentì un profondo mutamento nella cura delle persone affette da disturbi mentali e l’avvio del percorso di abolizione dei manicomi, sostituiti da servizi del territorio. Negli anni successivi, infatti, vennero istituiti appositi reparti di psichiatria negli ospedali, case d’aiuto e supporto alle famiglie, centri diurni e ambulatori gestiti da psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali: personale formato e abilitato alle cure e al trattamento dei pazienti psichiatrici.

Il periodo successivo per Basaglia fu caratterizzato da molti viaggi all’estero, in particolare in Brasile, per tenere conferenze, dalle dimissioni come direttore della struttura di Trieste, ormai avviata al cambiamento, e al trasferimento a Roma come coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio.

Purtroppo tale incarico non poté essere sviluppato per l’insorgere di un tumore cerebrale che in pochi mesi ne causò alla morte, avvenuta il 29 agosto del 1980 a Venezia.

Il commento

Il più grande merito di Franco Basaglia è stato quello di restituire dignità alla malattia mentale, non considerando il paziente come un oggetto da recludere o da nascondere perché guasto, ma una persona da accogliere, ascoltare, comprendere, da aiutare.

Egli è considerato il fondatore del moderno concetto di salute mentale, in contrapposizione al modello allora in auge che prevedeva la reclusione per il malato mentale e l’utilizzo di pratiche coercitive, rivolte al suo annientamento perché fosse nascosto ai “sani”.

I presupposti teorici e filosofici

Presentando la biografia è emerso come allo studio della medicina e alla specializzazione in psichiatria Basaglia affiancò alcuni approfondimenti filosofici. Dalla fenomenologia attinse il superamento della contrapposizione tra corpo e anima che aveva caratterizzato la psichiatria fino a quel momento: si trattava di superare un approccio positivista che considerava la malattia mentale come quella fisica, accettandone la complessità e utilizzando un approccio caratterizzato dal mettersi dalla parte del paziente, osservandone i comportamenti e stabilendo una relazione efficace.

Con il contributo dell’esistenzialismo riuscì a cogliere l’incomprensibilità profonda della malattia mentale, fu spinto ad abolire la distinzione accademica tra sano e malato, giunse alla conclusione che del paziente era necessario prendersi cura.

Il corpo

Dal lavoro degli intellettuali che stavano influenzando la psicologia e la psichiatria Basaglia si ispirò anche per il recupero dell’entità corporea, restituendole quell’importanza che i manicomi avevano messo da parte. Da Sartre, ad esempio, riprese il concetto di corpo come elemento oggettivo, che si espone allo sguardo degli altri, e soggettivo, con il quale si esiste, del quale si ha una consapevolezza come altro dal mondo, e da tutto ciò che ci circonda, come possibilità e libertà.

Il corpo rappresenta quindi un elemento della soggettività che non può essere annullato, il cui recupero è un elemento positivo per il benessere complessivo della persona e contribuisce al percorso di superamento della malattia mentale.

La situazione

Basaglia non negava che il malato di mente potesse essere pericoloso: «può esserlo come può non esserlo», sosteneva però che la pericolosità non dipendesse soltanto dalla malattia, ma da molteplici fattori, anche sociali. È necessario aggiungere che molte persone che non soffrivano di malattie mentali erano state rinchiuse nei manicomi perché ritenute “devianti”: omosessuali, prostitute, alcolisti, persone con disabilità, bambini orfani, donne considerate inadatte al ruolo di moglie e madre richiesto dalla società dell’epoca. L’internamento era giustificato sulla base delle leggi esistenti sul «pubblico scandalo» e i ricoveri avvenivano in modo coatto, su richiesta di chiunque segnalasse la presunta pericolosità della persona in questione, e potevano diventare definitivi dopo un primo periodo di internamento provvisorio.

La critica al manicomio

A partire dagli studi fatti e dagli approfondimenti filosofici, nonché dall’esperienza diretta come direttore di una struttura, si rese conto fosse necessario un miglioramento radicale della gestione dei malati mentali, giungendo alla convinzione della necessità di abolire i manicomi, come luoghi di semplice emarginazione e non di cura. Tale situazione negava la persona e la sua dignità mentre Basaglia proprio per salvaguardarla ritenne di dover profondamente modificare l’approccio psichiatrico, che non aveva alcuna capacità di far superare ai malati la loro condizione.

Per concretizzare le sue idee egli indicò e praticò un percorso che comprendeva un’azione sull’istituzione manicomiale perché modificasse il suo modo di operare, spingere gli operatori sanitari a riflettere sulla necessità di un cambiamento, l’utilizzo di farmaci coi quali avviare i primi passi della cura e la modifica dei rapporti tra istituzione e pazienti, il mantenimento o la possibilità di riallacciare i rapporti tra loro e il mondo esterno e, molto importante, l’apertura fisica e simbolica delle porte delle strutture.

Tutto ciò fornì la base per l’impianto giuridico e operativo della legge 180, la prima al modo ad abolire gli ospedali psichiatrici. La ragione è molto semplice: i metodi utilizzati da Basaglia determinarono un evidente miglioramento delle condizioni dei malati e degli stessi operatori sanitari. Ad esempio i ricoverati nell’ospedale psichiatrico di Trieste passarono in poco più di tre anni da circa 1.200 a meno di 850, e nel 1979, quando lasciò Trieste, erano rimasti nell’ospedale soltanto 130 ricoverati. È da ricordare che al momento dell’approvazione della legge 180 in Italia erano presenti 98 manicomi che ospitavano oltre 89.000 persone.

Profondi cambiamenti

L’attività clinica di Basaglia e quella politica e saggistica, svolta insieme a sua moglie, favorirono il ripensamento degli approcci dominanti alla cura delle malattie mentali, ma anche un mutamento profondo nel modo in cui l’opinione pubblica le considerava e ne parlava. Se è normale oggi ritenere che nessuna cura delle malattie mentali sia compatibile con l’emarginazione della persona malata o con la privazione della libertà, della sua dignità e dei suoi diritti civili, è perché quei cambiamenti furono realizzati.

Il coraggio di cambiare

Non è possibile pensare che le sue idee e la sua pratica riscuotesse nella psichiatria contemporanea un apprezzamento diffuso. Sia negli ambienti accademici sia in quelli clinici i suoi tentativi di riforma dell’ortodossia psichiatrica furono osteggiati, ai quali si aggiungeva la stampa conservatrice che lo attaccò in modo pesante. Malgrado ciò, continuò a portare avanti la sua battaglia, forte delle sue convinzioni e del supporto della moglie e di coloro che colsero il senso e l’importanza delle sue prospettive.

Questo appare un messaggio significativo per tutti: credere nelle proprie convinzioni, maturate e approfondite, e procedere malgrado le difficoltà.

Le fonti

La documentazione su Franco Basaglia è cospicua, libri, film, video, articoli, con una ripresa di interesse sulla sua figura in occasione proprio del centenario della nascita.

Amplissima è la sua produzione di articoli e saggi, tra le sue opere sono da ricordare in modo particolare L’istituzione negata del 1968 e Che cos’è la psichiatria del 1973.

Per la televisione Sergio Zavoli realizzò nel 1968 un lungometraggio intitolato Franco Basaglia – I giardini di Abele, nel 1975 alcuni registi girarono nel 1975 a Colorno un film-inchiesta dal titolo Matti da slegare con un approccio “basagliano” di superamento del manicomio, cui fecero seguito nei decenni successivi altri film ispirati alla sua attività e alla legge che porta il suo nome; Rai educational nel 2008 gli dedicò un ampio servizio nella rubrica I protagonisti della scienza. In rete sono disponibili molti video a lui dedicati, alcuni dei quali lo vedono protagonista.

Franco Basaglia ricevette, insieme alla moglie, alcuni riconoscimenti; a lui, e spesso in compagnia della moglie, sono intitolati biblioteche, parchi, teatri e vie, nonché strutture riabilitative.

Come sempre ecco alcune citazioni del nostro testimone.

«La società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia».

«Noi diciamo di affrontare la vita, perché la vita contiene salute e malattia, e affrontando la vita noi pensiamo di fare la prevenzione. Pensiamo di fare il nostro mestiere: di infermieri, di sanitari, di medici».

«Per poter veramente affrontare la “malattia”, dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall’istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono».

«Il manicomio – nato come difesa da parte dei sani contro la pazzia, come protezione dall’invasione dei “centri d’infezione” – sembra essere finalmente considerato il luogo dal quale il malato mentale deve essere difeso e salvato».

«L’irrecuperabilità del malato è spesso implicita nella natura del luogo che lo ospita».

«Ci sono sempre falsi profeti. Ma nel caso della psichiatria è la profezia stessa ad essere falsa, nel suo impedire, con lo schema delle definizioni e classificazioni dei comportamenti e con la violenza con cui li reprime, la comprensione della sofferenza, delle sue origini, del suo rapporto con la realtà della vita e con la possibilità di espressione che l’uomo in essa trova o non trova».

«Vedemmo che, dal momento in cui davamo risposte alla povertà dell’internato, questi cambiava posizione totalmente, diventava non più un folle ma un uomo con il quale potevamo entrare in relazione. Avevamo già capito che un individuo malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno».