Ālān Kurdî: un bambino e il suo popolo

Il personaggio

Le sue fotografie ha fatto il giro del mondo, colpendo e rattristando coscienze, strappando lacrime, moti di rabbia e di dolore, ma finiti troppo presto e dimenticati, come il suo popolo.

Questo bambino di tre anni è diventato un simbolo della tragedia dei Curdi, una nazione senza Stato, e dei profughi in fuga verso l’Europa per sfuggire alla guerra. Dalla sua troppo breve esperienza di vita desideriamo partire per conoscere meglio le sue radici etniche.

Il fatto, accaduto nei primi giorni di settembre del 2015, è ritornato di attualità con la condanna a 125 anni di carcere a testa per traffico di esseri umani e omicidio, inflitta dall’Alta corte penale di Bodrum in Turchia, per i tre trafficanti di esseri umani ritenuti responsabili del naufragio del gommone nel quale perse la vita il piccolo siriano. Gli scafisti erano latitanti ed erano stati arrestati pochi giorni prima dalle forze di sicurezza nella provincia meridionale di Adana.

Ālān era un bambino siriano, di etnia curda, nato a Kobanê probabilmente il 3 giugno del 2012. La famiglia, come tanti altre in quelle martoriate zone, per sfuggire alla guerra civile e all’ISIS cercò rifugio in alcune città del nord della Siria per poi passare il confine e stabilirsi provvisoriamente in Turchia. All’inizio del 2015 tentò di tornare nel luogo di origine, ma a causa della recrudescenza del conflitto fu costretta a fuggire nuovamente in Turchia.

La famiglia tentò più volte di raggiungere l’isola greca di Coo, poco distante da Bodrum, e al terzo tentativo salirono, dietro il pagamento di diverse migliaia di dollari, su un piccolo gommone, costruito per trasportare otto passeggeri, con un’altra ventina di profughi, tutti senza giubbotto di salvataggio o con finti salvagenti. Le precarie condizioni del mare e, soprattutto, dell’imbarcazione, fecero sì che il mezzo si ribaltasse pochi minuti dopo aver lasciato la costa e Ālān non sopravvisse al naufragio. Il suo corpicino venne riportato a riva dalla corrente e la sua immagine, riverso a terra, con un paio di calzoncini blu e una maglietta rossa, è diventata il simbolo del dramma dei rifugiati siriani in fuga dalla guerra.

I genitori del piccolo desideravano, come obiettivo finale, di raggiungere Vancouver, in Canada, dove vivono alcuni parenti. Una zia del bimbo, infatti, aveva già presentato una domanda al competente dipartimento canadese, dopo che dalle autorità turche era stato negato il visto di espatrio, ma venne negata perché incompleta. In seguito la famiglia tentò di entrare in Canada nell’ambito di un programma specifico, che necessitava, però, della dichiarazione di rifugiati da parte del governo di Ankara, condizione molto difficile, se non impossibile.

La fuga dalla Turchia fu comunque tentata, con il naufragio e la morte di altre persone, tra le quali la mamma e un fratello di Ālān.

La fotografa di un’agenzia di stampa, Nilufer Demir, ha scattato l’immagine del piccolo diventata un simbolo, e ha dichiarato: «Appena ho visto il bimbo mi si è gelato il sangue. Non c’era nulla che potessi fare per lui. Volevo solo mostrare il dolore che ho provato».

C’è riuscita. Noi non abbiamo voluto pubblicarla, ma è reperibile in rete, bensì mostrare quella dei due fratellini sorridenti, ma forse abbiamo sbagliato.

 

 

 

Il commento

Ālān scappava con la sua famiglia da una guerra che aveva provocato macerie nella sua città e ucciso tanti suoi compagni di giochi. Fuggiva dalle atrocità di un conflitto che costringe da anni milioni di persone alla fuga e all’atroce condizione di profughi e di migranti, con il mondo occidentale che molto, troppo spesso, chiude loro le porte in faccia.

Il piccolo curdo lo abbiamo ucciso anche noi, voltandoci dall’altra parte, votando per le forze politiche nazionaliste e sovraniste, non chiedendo, urlando, ai nostri governanti di affrontare seriamente le situazioni che provocano l’esodo di tanti disperati: guerre, persecuzioni, fame, mancanza di lavoro e delle condizioni necessarie per una vita degna di questo nome.

Siamo responsabili quando siamo troppo presi da noi stessi, dai nostri problemi non considerando quelli degli atri, dei più vicini, ma anche di quelli in apparenza lontani. Quando ci lamentiamo del superfluo che ci manca, non pensando a chi non ha neanche l’indispensabile.

Affrontare la situazione che ha portato alla morte di Ālān implica considerare come uscire dalle crisi che stanno alle spalle, in particolare quella siriana e dei Curdi.

Questa, pur possedendo radici antiche e, in epoca recente risale al 2011, come vedremo nella terza parte della pagina, ha avuto un’accelerazione nel mese di ottobre del 2019 con l’invasione turca, allo scopo di conquistare una fascia di territorio che funzioni da barriera, da separazione, per la sicurezza del Paese. Ankara ha avviato un’offensiva nel nord-est della Siria, occupato dalle forze curdo-siriane delle Ypg (Unità di protezione popolare). Nel 2014, dopo la caduta nelle mani dell’Isis di Falluja prima e di Mosul poi (in Iraq) e quella di Raqqa (in Siria), i Curdi sono stati i primi a opporsi all’avanzata degli estremisti religiosi, e lo hanno fatto nonostante la sostanziale inerzia della comunità internazionale, che solo dopo è intervenuta in loro sostegno e ora li lascia in stallo nel bel mezzo di una situazione estremamente complicata. A facilitare l’operazione, infatti, è arrivato il ritiro dei militari americani stabilito da Trump, che ha spalancato le porte a Erdoğan. I Curdi, che sono stati un elemento indispensabile per la sconfitta dello Stato islamico dell’Isis, sono stati abbandonati.

Attaccati dalla Turchia e non più supportati dagli Stati Uniti, i Curdi siriani si sentono traditi proprio da quel mondo occidentale che aveva espresso sostegno e stima negli ultimi anni. I loro esponenti hanno ripetuto alle istituzioni europee di non abbandonarli e non chiudere gli occhi su quanto accade: «Gli Stati dell’Ue devono ritirare al più presto i loro ambasciatori dalla Turchia perché sta violando troppe leggi internazionali e continua a danneggiare la Siria. Questo crimine va fermato e la Turchia deve essere sanzionata per quello che ha fatto», hanno affermato.

Ma questo è l’ennesimo voltafaccia delle grandi potenze ai danni di un alleato considerato sempre troppo piccolo e scomodo. La storia dei Curdi è fatta di grandi illusioni seguite da delusioni cocenti e ha spesso giocato contro di loro. Eppure, recentemente sembrava, come accennato, aver virato dalla loro parte. Quando, nel giugno del 2014, l’esercito iracheno cedette davanti all’offensiva dell’Isis, proprio le milizie curdo-irachene salvarono il secondo centro petrolifero iracheno. Poco dopo, nel settembre del 2014, gli Usa guidarono una coalizione internazionale, con raid aerei, contro l’Isis. Washington si rivolse ai Curdi, quelli siriani, poiché nessun Paese partecipante alla missione intese impiegare i propri soldati; le loro milizie divennero dunque gli indispensabili alleati incaricati di conquistare le città sotto il controllo dell’Isis. Ci riuscirono con successo, pagando però un alto tributo di sangue, e si trovarono a controllare un territorio pari a un quarto della Siria, che comprendeva i pozzi petroliferi in mano al regime di Damasco fino al 2012. Nell’estate del 2017 nuovamente i Curdi iracheni si resero protagonisti della liberazione di Mosul, la roccaforte irachena dell’Isis e, in autunno, della riconquista di Raqqa, la capitale dell’Isis.

Ma ecco l’ultimo tradimento del quale abbiamo parlato: Trump ed Erdoğan si sono accordati per rendere stabile il confine tra Turchia e Siria, creando una zona di sicurezza il cui fine era separare le forze curde da quelle turche. Le Ypg hanno cominciato ad abbandonare gli avamposti, ma meno di due mesi dopo, Trump ha smentito l’accordo e per i Curdi-siriani le cose si sono messe davvero male.

La domanda è se qualcuno loro dei potenti alleati, quando c’è stato bisogno del loro intervento, sia davvero disposto ad aiutarli, accettando il rischio di una gravissima crisi con la Turchia o di mettere a repentaglio i propri uomini. La condanna della comunità internazionale dell’invasione turca della Siria è stata debolissima: nessuna risoluzione dell’ONU, mentre l’UE ha blandamente condannato l’intervento turco, ma non ha preso alcuna decisione sull’embargo o altre misure nei confronti di Ankara.

Per il popolo curdo non è stata utilizzata la massima di Hannah Arendt, «il diritto di avere diritti», abbondantemente citata in altre occasioni. Eppure, le vicende descritte ci riportano proprio alle origini di quell’espressione. Poco dopo l’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 la Arendt pubblicò un saggio dal titolo, I diritti dell’uomo: che cosa sono? nel quale evidenziava una stridente contraddizione ivi contenuta. Celebrando l’universalità e l’inalienabilità dei diritti umani per tutte le persone, nei fatti la condizione per il loro godimento era ed è l’appartenenza a uno Stato, quindi in stridente contrasto proprio con i principi di universalità e inalienabilità.

Su questo tema la comunità internazionale si è arenata, di fronte all’assalto turco contro i Curdi. Fino a che un popolo non ha uno Stato, tutti i suoi membri sono vulnerabili e la loro vita dipende dalla buona volontà di chi può violarla, come i turchi, o non proteggerla, gli Stati Uniti e l’UE, in quanto non hanno una sovranità parte della stessa comunità internazionale. Il problema di fondo è considerare “non politica” la condizione naturale di un “essere umano”: questo è il senso del principio formulato dalla Arendt. “Umano” è un aggettivo che coincide con “politico”, poiché nessuno può vivere senza una comunità: questa è la “naturale”, “umana” condizione, ed è politica. Se i “diritti umani” non sono tradotti in diritti di umani politici si identifica la condizione politica esclusivamente con la cittadinanza connessa a uno Stato. I Curdi sono vittime di questa contraddizione: la politica li azzera, come popolo e come persone.

Insomma, come andrebbe risolto questo dramma secolare? La strada dovrebbe prevedere due fasi. Una prima di risoluzione dell’emergenza, con la cessazione di tutte le ostilità, un controllo da parte delle Nazioni Unite dei territori coinvolti dal conflitto, una forte presa di posizione internazionale nei confronti di chi si oppone al disegno di creare uno Stato curdo come esito del percorso. Concretamente si dovrebbe porre fine all’occupazione turca del territorio siriano, proteggere le popolazioni dell’area, controllare l’area per prevenire ogni deriva violenta, come la pulizia etnica, individuare i responsabili dei crimini di guerra secondo il diritto internazionale, fermare la vendita delle armi, attuare sanzioni contro chi contrastasse il disegno, adottare provvedimenti immediati per una soluzione della crisi politica in Siria con la partecipazione e la rappresentanza di tutte le differenti comunità nazionali, culturali e religiose del Paese.

La seconda fase dovrebbe condurre a un accordo tra le nazioni della regione, sotto l’egida dell’ONU e il contributo delle grandi potenze, per la formazione di un Kurdistan indipendente, supportando, anche sotto il profilo economico, i Paesi e le popolazioni convolte e con precisi impegni relativi alle risorse presenti, soprattutto per il petrolio e l’acqua. Questo aspetto è estremamente significativo, anche se fino a oggi non è emerso, in quanto nel territorio curdo scorrono i principali fiumi delle nazioni limitrofe, come il Tigri e l’Eufrate.

Forse queste considerazioni sono mera utopia, ma l’alternativa è il dramma di questi anni: c’è bisogno di politici coraggiosi e lungimiranti, nonché di un’opinione pubblica che fa pressione.

 

 

 

Le fonti

Per ovvie ragioni l’attenzione su Ālān Kurdî è stata legata alla sua tragica scomparsa e di lui si conosce quel poco emerso in quei giorni del 2015.

Per ricordarlo l’Ong tedesca Sea-Eye ha dato il suo nome a una delle navi che battono il Mediterraneo per soccorrere i migranti.

Le sue radici affondano in un popolo antichissimo, i Curdi, che vivono in un’area, il Kurdistan appunto, una regione montuosa di circa 200.000 chilometri quadrati, a cavallo, tra Turchia, Iran, Iraq, Siria, e, seppure in piccole zone, tra Armenia e Azerbaigian: dunque un popolo diviso e senza Stato. Le stime, difficilmente precise per ovvie ragioni, parlano di un numero di persone compreso tra i 35 e i 45 milioni, compresi quelli sparsi nel mondo, quindi uno dei più grandi gruppi etnici privi di unità nazionale e il quarto gruppo nel Medio Oriente dopo arabi, persiani e turchi. La loro lingua fa parte del ramo iraniano occidentale della grande famiglia indo-europea.

Gli storici non concordano nello stabilire la loro origine. Due sono le possibilità: potrebbero essere gli eredi dei Kardukhoi di cui parla Senofonte nell’Anabasi, ma anche, come appare più probabile, sarebbero i discendenti dei Cyrtii, tribù di montanari, citati da Strabone.

Nel settimo secolo, durante l’espansione araba, vennero conquistati e si convertirono al credo di Maometto, infatti oggi la religione più diffusa è l’Islam sunnita, praticato nella forma sciafeita, mentre sono sciiti parte dei Curdi iraniani; in alcuni Paesi vi sono anche minoranze che praticano culti quali l’alevismo, lo yarsanesimo e lo yazidismo. Sotto il profilo dell’interpretazione dell’Islam i Curdi, in generale, appaiono aperti e tolleranti, come dimostrato, ad esempio, dalle milizie femminili autonome che si sono battute contro l’Isis nelle Unità di Protezione delle Donne (YPJ).

Pochi secoli dopo, tra il XII e il XIII secolo visse il loro personaggio più famoso, chiamato in Europa, con qualche enfasi, il “Feroce Saladino” sultano la cui dinastia regnò in Egitto e Siria, avversario dei crociati. Suo nipote Malik al-Kāmil è il personaggio che incontrò san Francesco d’Assisi, giusto 800 anni orsono, nel 1219.

Nel XVI secolo gran parte del territorio Curdo entrò a far parte dell’Impero Ottomano, mentre una parte venne conquistata dalla Persia. Malgrado ciò il popolo mantenne una certa autonomia, conservando lingua, cultura e tradizioni, insieme a un ordinamento basato su tribù patriarcali e un sistema economico e sociale di tipo feudale. Nell’Ottocento si manifestarono le prime spinte verso l’indipendenza, represse dagli Ottomani. Con il disfacimento dell’Impero dopo la Prima guerra mondiale i Curdi confidarono nella costituzione di uno Stato autonomo, decretata anche dal Trattato di Sèvres dell’agosto 1920, che sanciva il diritto all’indipendenza per la popolazione curda in un proprio territorio. Il governo turco contrastò tale risoluzione e fece in modo che il successivo Trattato di Losanna, dedicato proprio ai confini della Turchia, dichiarasse nullo quanto stabilito in precedenza e destinasse a essa una vasta zona del Kurdistan. Il territorio dei Curdi venne quindi diviso e iniziarono una serie di rivolte per l’indipendenza sempre represse nel sangue. Dopo il secondo conflitto mondiale proseguirono le lotte per l’indipendenza, anche dei Curdi residenti negli altri Paesi, Iran, Iraq e Siria. Nelle guerre che caratterizzarono la fine del ventesimo secolo nell’area, come quella tra Iran e Iraq, il popolo curdo risultò essere vittima di entrambe le fazioni. Nel 1991 al termine della Guerra del Golfo scoppiò una nuova rivolta nel Kurdistan iracheno, soffocata dal regime di Saddam. L’ONU intervenne condannando la repressione e stabilendo una fascia di sicurezza per i Curdi nell’Iraq del nord.

La situazione del popolo curdo in tutti gli Stati è rimasta estremamente difficile, con gravi discriminazioni, vessazioni e il divieto di usare ufficialmente la lingua: in Turchia partecipare a incontri in curdo significa rischiare l’arresto, in Siria alcune minoranze curde non hanno il diritto di voto e a loro è impedito l’espatrio, l’accesso a impieghi statali e il possesso di vetture o altri beni.

Nello scenario degli Stati mediorientali sembra assolutamente impossibile la nascita di un Kurdistan autonomo e indipendente, poiché nessuno è disponibile a cedere queste parti del territorio, ricche di materie prime, in particolare il petrolio, e strategiche per il controllo dell’acqua dei grandi fiumi della regione.

 

Passando alla documentazione sulla crisi siriana e i Curdi vale la pena di citare un’interessante trasmissione dell’emittente La7 sul dramma dei profughi.

Per quanto concerne una molto sintetica bibliografia suggeriamo: Ocalan Abdullah, Guerra e pace in Kurdistan. Prospettive per una soluzione politica della questione curda, edizioni Tabor, 2019; Gombacci Marco, Kurdistan. Utopia di un popolo tradito, edizioni Salerno, 2019; De Biasi Antonella, Caputo Giovanni, Chomani Kamal, Curdi, Rosenberg & Sellier, 2018; Stefano Maria Torelli (a cura di), Kurdistan, la nazione invisibile, Mondadori, 2016; Galletti Mirella, Storia dei Curdi, edizioni Jouvence, 2004.

Oltre a questi volumi sui Curdi, per chi desiderasse conoscere la loro cultura segnaliamo: Fiabe e racconti popolari del Kurdistan, curato da Daniele Guizzo e Matteo De Chiara, Scienze e Lettere, 2015); Nejat Çetin, Siediti e Ascolta. Racconti brevi della tradizione orale curda, Pentagora, 2015 e, dello stesso anno, Baykar Sivazliyan, Storie e leggende del popolo curdo.

In rete è disponibile un ampio materiale sul tema.

 

Dal testo di Marco Gombacci ecco un brano di valutazione dell’Europa nell’ultima crisi curda e una rapida descrizione del modello di democrazia sperimentato nel nord della Siria.

«La condanna unanime agli Stati Uniti per aver abbandonato i curdi e alla Turchia per aver iniziato una campagna militare contro di loro, ha fatto rilevare l’ipocrisia anche di un altro attore principale della vicenda: l’Europa. Lo sdegno dei leader europei alla scelta di Trump non si è fatto attendere, richieste ad Ankara per fermare l’offensiva militare si sono aggiunte a un (tardivo) divieto per la vendita di armi alla Turchia. Ma dove erano tutti gli stati europei quando i curdi chiedevano loro sostegno per riprendersi i propri foreign fighters? Dove erano gli stati europei quando i curdi chiedevano supporto per instaurare sul loro territorio, dove avevano abolito la pena di morte, un Tribunale internazionale per poter giudicare i jihadisti dell’Isis? Quali azioni concrete hanno messo in atto per fermare le operazioni militari coordinate da Ankara?

Quando giunsero in Europa le notizie di una comunità in Medio Oriente che si era organizzata per combattere militarmente e ideologicamente il Califfato, pochi avevano capito la straordinarietà di un evento che avrebbe potuto scuotere la regione intera. Una democrazia diretta dal basso, basata sull’autogoverno delle città e dei villaggi, è da considerare un modello politico-sociale innovativo e dirompente in un’area del mondo caratterizzata da perenni conflitti etnici, religiosi e sociali. Il ruolo della donna come pilastro fondamentale della società anziché come soggetto relegato a un ruolo socialmente inferiore, una libertà religiosa garantita universalmente anziché l’alimentazione di conflitti confessionali, uno sviluppo economico che debba considerare l’ecologia come carattere insostituibile di esso anziché un’economia basata sul capitalismo sfrenato: questi i valori con i quali i curdi decisero di contrapporsi ai regimi dittatoriali sviluppatisi capillarmente nell’area mediorientale. Questi i valori che l’Europa avrebbe dovuto difendere invece di piegarsi all’ignavia di una politica estera di basso profilo.

Forse, tale visione del mondo è stata accolta con un certo scetticismo da un Occidente influenzato da una narrativa sul Medio Oriente spesso confusa e imprecisa. L’opportunità di testimoniare direttamente dal campo queste conquiste sociali ha permesso di toccare con mano la realtà dei fatti nella società della Siria nordorientale.

I precetti del confederalismo democratico erano stati diffusi, applicati e sono stati implementati in tutte le innumerevoli sfaccettature della società multi-etnica e multi-religiosa della Federazione.»

 

Una curiosità singolare è che pochi forse sono al corrente del ruolo svolto da italiani nella conoscenza dei Curdi. Infatti, il primo vero tentativo sistematico occidentale di fare la conoscenza questo misterioso popolo, nascosto nelle sue impervie montagne, venne compiuto da studiosi dello Stivale. Il primo fu Maurizio Garzoni, il precursore europeo degli studi Curdi, che nel 1787 pubblicò una Grammatica e Vocabolario della lingua Kurda, seguito una trentina di anni dopo dal collega Giuseppe Campanile con la sua Storia della Regione del Kurdistan e delle sette di religione ivi esistenti (1818). Il loro avvio pionieristico rimase pressoché senza seguito, se si eccettua qualche lavoro di autori nel periodo risorgimentale fuoriusciti dall’Italia e rifugiati presso il Sultano: Alessandro de Bianchi, che nel 1859 pubblica i Viaggi in Armenia, Kurdistan e Lazistan (riediti da Argo nel 2005); Cristina Trivulzio di Belgiojoso, la quale tenta la via del romanzo con Un principe curdo (1855, ripubblicato da Tufani nel 1998); infine in tempi più recenti è emersa Mirella Galletti, i cui titoli sono un patrimonio imprescindibile: dopo la sua scomparsa il nostro Paese non ha più espresso grandi studiosi di “cose curde” a livello internazionale.

 

Proponiamo alcuni proverbi Curdi.

«Una ragazza senza una madre è come una montagna senza percorsi; una ragazza senza un padre è come una montagna senza flussi.»

«Un ladro non catturato diventa un re.»

«Uno stomaco affamato non ha orecchie.»

«Un centinaio di uomini sono grado di sedersi insieme in silenzio, ma quando due cani si riuniscono ci sarà una lotta.»

«Una casa senza ospiti, un villaggio senza pastori, entrambi sono senza speranza.»

«Una parola gentile scalda un uomo per tre lunghi inverni.»

«Molto spesso cercare di dimostrare che sei meglio degli altri, è già di per sé una umiliazione.»

«Una roccia è forte al suo posto.»

«Un leone è un leone, maschio o femmina che sia.»

 

E il testo di alcune canzoni.

«Mi sacrifico per te, terra mia

adesso lasciata in rovine.

Il mio amore per te è tanto grande,

nel cuore e nel sangue sei come un nido

Il mio unico figlio

il mio unico figlio martoriato

era un bambino di Halabja

Come non potrei piangere,

come non potrei piangere per questa mia terra

divenuta preda degli uccelli rapaci?»

«Vi sbagliate

i Curdi non moriranno mai

la mappa del Kurdistan

non sarà mai distrutta,

non sarà mai cancellata.»

 

«Il dolore e la nostalgia sono ovunque

Che è successo agli abitanti di Aleppo, Homs e Hamal?

Che è successo, cosa è stata fatto ai Palestinesi, Siriani, Ezidi ed Armeni?

O voi che spargete la morte nella terra!

In che cielo credete?

Dov’è il vostro cuore, o voi che guardate questo terrificante dolore?»

 

«Io vado, madre.

Se non torno,

sarò fiore

di questa montagna,

zolla di terra

per un mondo

più grande di questo.

Io vado, madre.

Se non torno,

il mio corpo cadrà

come folgore

nelle celle della tortura

e il mio spirito squasserà

come l’uragano

tutte le porte.

Io vado, madre.

Se non torno,

la mia anima sarà parola

per tutti i poeti.»

 

«Nell’oscurità di anguste celle,

tra usci infami e solidi ferri

fra topi e scarafaggi

seminiamo la nostra parola,

e matura la nostra storia

irrigata dalle lacrime dei bambini

per il padre dietro le sbarre,

nutrita dal desiderio umiliato

delle giovani spose

cui il carcere ha tolto

ben presto l’amore.

La fantasia tesse nuovi racconti,

ricama con fili di lacrime,

con colori di sangue,

del sangue dei ragazzi e delle ragazze

che scorre eroico sui nostri monti,

su queste montagne kurde

e così continuano le nostre leggende

si intrecciano altre canzoni…»

 

«Quando prendi un suo raggio

e con quello scrivi,

ti fa visita il sole

e ti regala un libro.

Quando sai leggere

le parole dell’onda

ti fa visita l’acqua

e ti regala la sua ninfa più bella.

E quando ti si accende nel cuore

l’amore per gli oppressi

ti fa visita il futuro

e ti offre tutta la felicità del mondo.»

 

«Sono l’aquila che vive sulle vette

dall’alto osservo i pascoli

Senza famiglia, senza casa e terra

come sudario avrò le mie ali soltanto

Tutto quel che io desidero è di avere accanto

un volto splendente come il tulipano

Se alle montagne narrassi il mio soffrire

sui pendii non crescerebbero più i fiori

È addolorato il mio cuore Signore

soffre e trema d’angoscia

anela alla patria, piange l’esilio

E questo fuoco mi brucia.»

 

«Se sai contare

le foglie di questa foresta

se sai contare

tutti i pesci, grandi e piccoli,

del fiume che scorre qui davanti

se sai contare

gli uccelli al tempo della migrazione

dal Nord al Sud

e dal Sud al Nord

allora scommetto

che anch’io riuscirò a contare

i martiri della mia terra,

il Kurdistan.»

 

«Mi svegliavo dal sonno, quando vidi un mercante di rose.

Ne fui tutto felice mi dai, gli chiesi, una rosa

una rosa in cambio del cuore?

avevo un cuore solo, pieno tristezza e miseria,

non credevo che avrebbe dato una rosa per il mio cuore

una rosa per il mio cuore

Il contratto l’abbiamo stretto, disse non posso aggiungerci nulla

chi ama molto la rosa, dà insieme l’anima e il cuore

dà insieme l’anima e il cuore

io chiesi: chi dà l’anima e il cuore per una rosa?

È il contratto rispose dammi il cuore e la sua tristezza

dammi il cuore e la sua tristezza.

Detti l’anima e il cuore lanciò un grido e disse

O GEGHERXHUIN, dai il tuo cuore per una rosa

dai il tuo cuore per una rosa.»

 

«Terra vietata

Vietato anche il suo nome.

Bandita la sua lingua.

Strana terra

è la mia terra eppure non è sogno

né fantasma sono bambini

che pascolano bestie

donne di sterco secco rughe di

secoli volti bruciati

dalla solitudine

ma quanti amori vivono

ma quanti iddii si pregano

di tanto in tanto lacera

i suoi cieli

un crepitio meccanico

la mia terra

si torce nel dolore…»

 

«Io cammino

passo…

a passo

Il mio cuore: un fiume dell’amore

la mia testa: il sole

la mia mano: l’ascia

i miei piedi: l’alluvione.»

 

«Ho fatto un disegno

vorrei che tutti lo vedessero sempre

sono diventato una voce

vorrei che tutti lo sentissero sempre

per il mio paese

per il mondo

per l’universo…»

 

Ancora, il video di una canzone della resistenza.

 

Una lettera aperta di donne Curde.

Nel mese di ottobre del 2019 il Consiglio delle donne curde della Siria del Nord e dell’Est ha fatto un appello a tutte le donne del mondo contro l’offensiva della Turchia nella loro regione, diffondendo una lettera aperta intitolata A tutte le donne e ai popoli del mondo che amano la libertà.

«Come donne di varie culture e fedi delle terre antiche della Mesopotamia vi mandiamo i più calorosi saluti. Vi stiamo scrivendo nel bel mezzo della guerra nella Siria del Nord-Est, forzata dallo Stato turco nella nostra terra natale. Stiamo resistendo da tre giorni sotto i bombardamenti degli aerei da combattimento e dei carri armati turchi.

Abbiamo assistito a come le madri nei loro quartieri sono prese di mira dai bombardamenti quando escono di casa per prendere il pane per le loro famiglie. Abbiamo visto come l’esplosione di una granata Nato ha ridotto a brandelli la gamba di Sara di sette anni, e ha ucciso suo fratello Mohammed di dodici anni.

Stiamo assistendo a come quartieri e chiese cristiane vengono bombardate e a come i nostri fratelli e sorelle cristiani, i cui antenati erano sopravvissuti al genocidio del 1915, vengono adesso uccisi dall’esercito del nuovo impero Ottomano di Erdogan. Due anni fa, abbiamo assistito allo Stato turco che ha costruito un muro di confine lungo 620 chilometri, attraverso fondi Ue e Onu, per rafforzare la divisione del nostro Paese e per impedire a molti rifugiati di raggiungere l’Europa.
Adesso stiamo assistendo alla rimozione di parti del muro da parte di carri armati, di soldati dello Stato turco e jihadisti per invadere le nostre città ed i nostri villaggi. Stiamo assistendo ad attacchi militari. Stiamo assistendo a come quartieri, villaggi, scuole, ospedali, il patrimonio culturale dei Curdi, degli yazidi, degli arabi, dei siriaci, degli armeni, dei ceceni, dei circassi e dei turcomanni e di altre culture che qui vivono comunitariamente, vengono presi di mira dagli attacchi aerei e dal fuoco dell’artiglieria. Stiamo assistendo a come migliaia di famiglie sono costrette a fuggire dalle loro case per cercare rifugio senza avere un luogo sicuro dove andare.

Oltre a questo, stiamo assistendo a nuovi attacchi di squadroni di assassini di Isis in città come Raqqa, che era stata liberata dal terrore del regime dello Stato Islamico due anni fa con una lotta comune della nostra gente. Ancora una volta stiamo assistendo ad attacchi congiunti dell’esercito turco e dei loro mercenari jihadisti contro Serêkani, Girêsipi e Kobane. Questi sono solo alcuni degli incidenti che abbiamo affrontato da quando Erdoğan ha dichiarato guerra il 9 ottobre 2019.

Mentre stiamo assistendo al primo passo dell’attuazione dell’operazione di pulizia etnica genocida della Turchia, assistiamo anche all’eroica resistenza delle donne, degli uomini e dei giovani che alzano la loro voce e difendono la loro terra e la loro dignità. Per tre giorni i combattenti delle Forze siriane democratiche, insieme alle YPG e alle JPY hanno combattuto con successo in prima fila per impedire l’invasione della Turchia e dei massacri. Donne e uomini di tutte le età sono parte di tutti gli ambiti di questa resistenza per difendere l’umanità, le acquisizioni e i valori della rivoluzione delle donne in Rojava. Come donne siamo determinate a combattere fino a quando otterremo la vittoria della pace, della libertà e della giustizia. Per ottenere il nostro obiettivo contiamo sulla solidarietà internazionale e la lotta comune di tutte le donne e gente che ama la libertà».

 

Concludiamo offrendovi una poesia sul dramma di Ālān.

 

Naufragio

 

Voltare la testa

Tenerla fuori da questa furia

Alzare le spalle

Afferrare un bordo di un qualsiasi relitto

Chiudere gli occhi

Chiudere appena gli occhi per preservarli da sale e sole

Dimenticare in fretta

Ricordare continuamente di respirare piano

Alzare il volume delle cuffie

Allungare l’ascolto fino all’orizzonte se passa un samaritano

Affogare il silenzio tra le parole

Urlare in silenzio siamo qui come voi

 

Dove possono incontrarsi

esseri così diversi nei sensi e nel senso?

 

Ma questo mare è stanco.

Stanco

di pesci che non sanno nuotare

eppure si ostinano a fuggire dalla parola fine;

di pesci senza le branchie per respirare in questo mare d’isteriche fobie;

di sgraziate meduse povere pure di tentacoli ma con ectodermi di taglie e colori diversissimi.

 

Ma questo mare è stanco.

Stanco di deporre infiniti Ālān su spiagge di pietre confuse

mescolando bambolotti e cadaveri.

E così si inquieta lui, il mare,

e noi con lui

e annaspiamo,

ma non come chi c’è dentro.

È colpa la nostra,

ma non felice,

È impresa senza confronti questa: superare in pietà quest’acqua e pescare vivi.

 

Solo così non sarà più possibile

voltare la testa,

alzare le spalle,

chiudere gli occhi,

dimenticare in fretta,

alzare il volume del nostro rumore

 

e potremo dirci ugualmente umani

in questo eterno naufragio.