Martedì 8 novembre è stato presentato il Rapporto 2022 dell’Istituto per l’Analisi delle Politiche Pubbliche intitolato Lavoro e formazione, l’Italia di fronte alle sfide del futuro.
Cos’è l’Istituto
L’INAPP è un ente pubblico di ricerca, che svolge analisi, monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro e dei servizi per il lavoro, delle politiche dell’istruzione e della formazione, delle politiche sociali e di tutte quelle politiche pubbliche che hanno effetti sul mercato del lavoro. Nato nel 2016 come trasformazione dell’ISFOL l’Istituto collabora con le istituzioni europee e fa parte del sistema statistico nazionale; il suo obiettivo è di contribuire allo sviluppo scientifico, economico e sociale dell’Italia. L’attività di ricerca è volta a studiare fenomeni di importanza strategica per la collettività, allo scopo di fornire informazioni, conoscenza e strumenti utili ai decisori politici per compiere le proprie scelte e ai cittadini per valutare l’impatto di tali scelte.
In sintesi
L’Istituto sottolinea come superata l’emergenza della pandemia riemergono i problemi strutturali del mercato del lavoro, che appare ancora bloccato dalla precarietà. Dei nuovi contratti attivati nel 2021 sette su dieci sono a tempo determinato; il part time “involontario” coinvolge l’11,3% degli occupati, contro una media OCSE del 3,2%; solo il 35-40% dei lavoratori atipici passa a impieghi stabili nell’arco di tre anni; i lavoratori poveri rappresentano ormai il 10,8% del totale; l’Italia è l’unico Paese dell’area OCSE nel quale negli ultimi 30 anni il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1% e dove le politiche in tema di sostenibilità sono state adottate appena dall’8,6% delle imprese, e di queste la gran parte solo per il miglioramento nella gestione dei rifiuti, al contrario resta una chimera la creazione di filiere ecosostenibili (appena l’1,2%) e per la produzione/consumo di energie da fonti rinnovabili (3,1%).
Alcune debolezze del nostro sistema produttivo sembrano essersi cronicizzate e il lavoro sia intrappolato tra bassi salari e scarsa produttività. «Per questo occorre pensare ad una “nuova stagione” delle politiche del lavoro, che punti a migliorare la qualità dei posti di lavoro, soprattutto per i neoassunti e per i lavoratori a basso reddito, per le posizioni lavorative precarie e con poche possibilità di carriera, dove le donne e i giovani sono ancora maggiormente penalizzati. Le politiche del lavoro devono integrarsi con le politiche industriali e con le politiche di sviluppo, in una strategia unitaria orientata al rafforzamento della struttura produttiva, alla crescita del capitale umano e dell’innovazione tecnologica, al rafforzamento della coesione e della sicurezza sociale».
Un lavoro precario
Il tasso di occupazione all’inizio della pandemia è sceso dal 58,8% al 56,8% e ha ripreso a crescere nel 2021 raggiungendo i livelli precedenti al Covid dopo 18 mesi, mentre negli altri paesi OCSE la risalita si era già manifestata nel 2020 e completata in 15 mesi.
Sempre nel 2021 il 68,9% dei nuovi contratti sono stati a tempo determinato e solo il 14,8% a tempo indeterminato; il lavoro atipico ha rappresentato l’83% delle nuove assunzioni con un incremento del 34% negli ultimi 12 anni. Tale modello di sviluppo occupazionale è diventato oramai strutturale e una flessibilità positiva, che conduce cioè alla stabilizzazione nell’arco di tre anni, riguarda una quota che oscilla tra il 35 e il 40%, al contrario una percentuale simile ha continuato a svolgere un’attività precaria, un 16/18% ha perso l’impiego ed è alla sua ricerca e un 17% nel 2021 si dichiara inattivo (era il 3% nel 2010).
I lavoratori che svolgono un’occupazione a tempo parziale non per loro scelta ha raggiunto l’11,3% e la tendenza diffusa nella maggior parte dei paesi è alla riduzione dell’orario, per cui come conseguenza la produzione per singola ora è ferma dal 2000.
Il lavoro povero
Un altro fenomeno italiano è la crescita del numero di famiglie a rischio di povertà pur in presenza di un’attività lavorativa, sia subordinata sia autonoma: tra il 2010 e il 2020 il tasso di incidenza di un lavoro “povero” è costantemente superiore all’11%, ben lontano da circa il 2% della media UE. L’8,7% degli occupati percepisce una retribuzione annua lorda inferiore a 10.000 euro e solo il 26% dichiara redditi superiori al 30.000: cifre molto basse se equiparate a quelle degli altri lavoratori europei. Ciò ha come conseguenze la difficolta ad affrontare spese improvvise o posticipare cure mediche.
In generale l’Italia è l’unico paese OCSE ad aver registrato un calo dei salari del 2,9% negli ultimi 30 anni e addirittura dell’8,3% dal 2010 al 2020, rispetto a una media degli altri superiore al 38%. Nello stesso periodo la produttività è salita del 21,9%, per cui non ha funzionato il meccanismo di aggancio dei salari alla performance del lavoro.
A peggiorare il quadro si assiste alla forte ripresa dell’inflazione che erode il potere d’acquisto delle famiglie, riproponendo il problema dei meccanismi adeguati a contrastare il fenomeno.
Le cause della dinamica salariale in calo sono molte, una è legata alle modalità di negoziazione degli stipendi. Pochissime sono le imprese che applicano i due livelli di contrattazione, quello nazionale e quello aziendale, solo il 4%; si è inoltre ridotto il numeri di quelle che dichiarano di applicare un contratto nazionale (-10%) ed è raddoppiata la quota di imprese che non applicano alcun contratto: dal 9% del 2011 al 20% del 2018.
Il fabbisogno di professioni e competenze
Il Rapporto pone in risalto un ulteriore aspetto. Solo il 22,8% delle imprese italiane nel 2021 ha segnalato la necessità di un adeguamento delle conoscenze e delle competenze delle figure professionali, erano un terzo nel 2017, e ciò riguarda soprattutto le realtà produttive medie e grandi.
Le professioni tecniche ad alta qualificazione sono quelle nelle quali emerge una maggiore esigenza di aggiornamento legato ai processi di innovazione.
I ritardi nella sostenibilità delle imprese
Il nostro sistema produttivo ha difficoltà ed è in ritardo nello sviluppo di processi connessi con la sostenibilità: tra il 2018 e il 2020 ciò ha riguardato solo l’8,6% delle aziende, in particolare di medie e grandi dimensioni. Gli interventi hanno riguardato il miglioramento della gestione dei rifiuti (25%), l’efficienza e il risparmio energetico (14,2%) e la riduzione dell’inquinamento ambientale (12,4%). Altri terreni di innovazione sono stati sui temi dell’organizzazione del lavoro (35%) e della competitività (10,2%), anche in risposta alle problematiche sollevate dalla pandemia.
Questi i principali contenuti del Rapporto INAPP 2022, che propone anche approfondimenti sui temi della formazione, del welfare, delle politiche attive e passive e delle condizioni degli immigrati.