Covid-19: conversione e ricostruzione

Il fatto

Il fatto del mese riguarda tutti, ma proprio tutti, nel mondo intero: la pandemia che ha d’improvviso cambiato la nostra vita e le nostre abitudini e potrebbe incidere a lungo.

Proviamo a ricostruirne le fasi iniziali.

Tutto ha origine da quello che viene chiamato il “paziente 0” che si è infettato tra la metà di settembre e l’inizio di dicembre del 2019, secondo uno studio pubblicato sula rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America) da ricercatori dell’università di Cambridge, nel Regno Unito, e da colleghi tedeschi, che hanno analizzato genomi virali completi sequenziati, isolati da malati. Da questa indagine sono stati ricostruiti i primi passi dell’epidemia, identificando tre diverse varianti genetiche del virus, denominate A, B e C, quest’ultima giunta in Europa, e in Italia. Le ipotesi sono due. La prima infezione documentata si sarebbe manifestata in Germania il 27 gennaio, per diffondersi anche nel nostro Paese, mentre un’altra via sembrerebbe correlata a un cluster virale di Singapore.

Le tecniche utilizzate dagli scienziati per tentare di ricostruire i percorsi evolutivi iniziali di Covid-19 sono quelle generalmente adottate per mappare, con l’ausilio del DNA, i movimenti delle popolazioni preistoriche; ed è la prima volta che esse sono impiegate per tracciare le vie di infezione di un coronavirus. Lo studio ha analizzato i primi 160 genomi virali dal 24 dicembre al 4 marzo. La ricostruzione è complicata dalle numerose e rapide mutazioni del virus: è come fotografare un’esplosione nella sua fase iniziale, sapendo che continuerà a espandersi. La ricerca ha comunque consentito di individuare le tre varianti. La A è considerata dagli autori «la radice dell’epidemia», la più strettamente correlata al virus trovato nei pipistrelli e nei pangolini; la variante B deriva dalla A, dalla quale si distingue per due mutazioni, mentre a C a sua volta deriva dalla B.

I ricercatori hanno poi mappato la diffusione delle varianti, con qualche sorpresa: la A era presente a Wuhan, primo epicentro della pandemia, ma non era quella predominante in città, mentre è stata osservata in cittadini americani che avevano vissuto a Wuhan e in molti pazienti statunitensi e australiani. La variante più frequente a Wuhan era invece la B, prevalente nei malati di tutta l’Asia orientale, ma poco diffusa altrove, come se ci fosse una resistenza contro questo tipo di virus nelle altre aree del pianeta, ipotizzano gli scienziati. Un’altra possibile spiegazione è «che il virus B di Wuhan si possa essere adattato a una vasta parte della popolazione dell’Asia orientale», e che quindi Sars-CoV-2 abbia avuto bisogno di mutare per svilupparsi in zone diverse del mondo. Non è un caso, riflettono i ricercatori, che «nella fase iniziale dell’epidemia assistiamo a un tasso di mutazione più lento in Asia orientale che altrove». Quanto alla variante C, è quella più diffusa in Europa, riscontrata nei primi pazienti diagnosticati in Francia, Italia, Svezia e Inghilterra; sembra assente in Cina, ma è stata osservata a Singapore, Hong Kong e Corea del Sud.

Secondo gli autori questa analisi potrebbe essere ripetuta sulle ultime sequenze virali ottenute per aiutare a prevedere i futuri nodi territoriali della trasmissione: i punti caldi del contagio.

Ulteriori indagini hanno confermato quanto espresso nel lavoro citato; ad esempio uno studio italiano ha ribadito la possibilità che i primi episodi in Cina si siano manifestati a novembre se non prima, interpretati come polmoniti anomale. In ogni caso la data ufficiale di inizio di questa infezione da coronavirus è l’ultimo giorno del 2019, nel quale le autorità locali della megalopoli cinese avevano dato notizia di questi fatti insoliti. Nei primi giorni di gennaio sono stati riscontrati decine di episodi e molte più persone erano sotto osservazione, collegando la loro condizione con la frequentazione dello Huanan Seafood Wholesale Market di Wuhan, chiuso dal primo gennaio 2020. Da questo è stata formulata l’ipotesi che il contagio possa essere stato causato da qualche prodotto di origine animale venduto nel mercato.

Le autorità cinesi la settimana dopo, il 9, hanno comunicato ai mezzi di informazione locale che il patogeno responsabile era un nuovo ceppo di coronavirus, della stessa famiglia di quelli responsabili della Sars e della Mers, come pure di banali raffreddori, ma nuovo, diverso da essi. Il 10 gennaio l’Organizzazione mondiale della sanità divulgava la notizia, fornendo le istruzioni del caso, come quella di evitare il contatto con le persone che manifestavano i sintomi, e dichiarando che non era necessario raccomandare alcuna restrizione ai viaggi per e dalla Cina, poiché tutte le poche situazioni erano concentrate a Wuhan e non si conosceva la contagiosità di questo virus: Sars e Mers, ad esempio, sono molto più gravi, ma notevolmente meno trasmissibili.

Negli stessi giorni, il 7, il virus era isolato e il 12 veniva sequenziato e tale sequenza genetica era messa a disposizione dalla Cina agli scienziati di tutto il mondo, condizione essenziale per sviluppare i test diagnostici e monitorarne la diffusione. Il 21 gennaio le autorità sanitarie locali e l’OMS annunciavano che il nuovo coronavirus si trasmette da persona a persona, venivano diffuse le prime raccomandazioni, come non recarsi in Cina, e a Wuhan iniziava l’isolamento.

Tutto ciò, probabilmente, è stato fatto con una certa lentezza.

In Italia il 29 gennaio sono stati identificati due turisti provenienti proprio da Wuhan come contagiati e ricoverati all’ospedale Spallanzani di Roma, sede dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive; un ricercatore italiano proveniente dalla Cina è risultato positivo al virus. Nelle prime settimane dell’anno i casi fuori dal Paese asiatico erano limitati, ma già alla fine di gennaio l’OMS affermava il rischio molto alto della diffusione dell’epidemia in Cina e l’alto pericolo globale, dichiarando una situazione di «emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale». L’Italia, prima in Europa, interrompeva i voli da e per la Cina, pur in presenza di una stabilizzazione del contagio nel grande stato asiatico.

L’OMS l’11 febbraio dà un nome alla nuova malattia: Covid-19. Co e vi per indicare l’appartenenza alla famiglia dei coronavirus, d per denotare il fatto che è una malattia, dal termine inglese disease, e 19 per specificare l’anno della scoperta, appunto il 2019. Anche al virus viene cambiato il nome: da 2019-nCoV a Sars-CoV-2, poiché è parente del coronavirus responsabile della Sars.

Dieci giorni dopo, venerdì 21 febbraio, emergono in Italia, in provincia di Lodi e non solo, diversi casi di persone infettate, ma non provenienti dalla Cina, con la conseguente chiusura delle aree interessate. Il numero dei contagiati si sviluppa nel nostro Paese e in Iran come pure in Corea del Sud, ma ben presto, ai primi di marzo, la diffusione investe anche altri stati.

Dopo la misura locale di divieto di movimento, di uscita e accesso alle zone più colpite, il 4 marzo il governo italiano stabilisce la chiusura di scuole e università in tutto il territorio fino al 15 del mese, a fronte di circa 2.700 casi positivi accertati, oramai in quasi tutte le regioni. L’8 marzo un decreto prevede l’isolamento della Lombardia e di altre 14 province: la “zona rossa”. Soltanto il giorno dopo, però, vista la gravità della situazione, soprattutto in prospettiva, le misure sono estese a tutto il Paese, col divieto di uscire salvo che per comprovati e gravi motivi: esigenze di lavoro, fare la spesa, acquistare medicine o altri motivi di salute. La parola d’ordine è: «io resto a casa».

L’11 marzo l’OMS, mentre l’Italia attua le misure di contenimento col suo plauso, dichiara ufficialmente che il Covid-19 è una pandemia, vale a dire un’epidemia che riguarda l’intero genere umano, richiamando tutte le nazioni a impegnarsi per contrastare la diffusione del contagio.

Mentre nel mondo il virus si diffonde, col suo carico di infettati, anche in modo asintomatico, malati e morti, nelle province cinesi più colpite non si registrano, ufficialmente, nuovi casi.

Dopo l’Italia praticamente tutte le nazioni hanno adottato misure di contenimento, come si stanno moltiplicando gli sforzi per combattere il Sars-CoV-2.

Gli stati stanno affrontando le problematiche sociali, lavorative, economiche e produttive che la malattia sta provocando, nonché la complessa fase di convivenza col virus.

 

 

Il commento

La necessità di cambiare

In queste settimane è stato ripetuto che dopo questa pandemia il mondo non sarà più lo stesso e l’impatto globale della malattia sarà profondo a tutti i livelli: sociale, economico, politico e istituzionale, scientifico, storico.

Da credenti riteniamo che il rinnovamento debba essere una conversione, un cambiare vita, e una ricostruzione su nuove basi, quelle indicate da papa Francesco nella Laudato si’: combattere l’inequità, superare il paradigma tecnocratico in economia e in politica, andare verso una «ecologia integrale, che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali».

Ancora, il riferimento è l’Agenda 2030 dell’ONU per uno sviluppo sostenibile.

La fragilità messa in luce dal Covid-19 deve trovare una risposta in un percorso di trasformazione positiva, per un salto di qualità.

La gente, noi, dobbiamo coltivare questa consapevolezza, diffonderla, spingere la politica a essere in grado di guidare un simile percorso, ispirato da una prospettiva teleologica, cioè riguardante i fini ultimi da perseguire attraverso le decisioni da prendere, in un’ottica transgenerazionale.

La crisi e un nuovo umanesimo

Stiamo vivendo una crisi che possiede tre dimensioni: quella biologica di una pandemia che minaccia le vite, quella economica e quella di civiltà, con un brusco cambio di abitudini. Questa situazione dovrebbe provocare anche una riflessione sul pensiero in sé, sul modo di vivere, e sul pensiero politico: c’è bisogno di un umanesimo rinnovato, che affondi le sue radici nella centralità della persona, nel bene comune, nella solidarietà, nei diritti, nel senso di responsabilità, nell’etica.

Serve far emergere una consapevolezza della comunità dei destini umani, capace di valorizzare le identità nazionali insieme all’identità di razza, la razza umana nel suo complesso. L’alternativa va costruita attorno a questo umanesimo, per declinarsi in tre rami da considerare insieme: democrazia, giustizia sociale ed ecologia.

Un grande piano di rinascita vuole dire anche un cambio nelle priorità: sanità, istruzione e formazione, lavoro e relazioni al primo posto, con una lotta senza quartiere all’idea dell’economia dominata dalla finanza, da un capitalismo dal volto disumano che sfrutta le risorse naturali in modo selvaggio.

Verso una svolta in economia

Il mondo dovrà affrontare una crisi economica senza precedenti. Noi riteniamo si debba procedere nella direzione di una profonda trasformazione.

Prima di far ripartire l’economia è necessario deciderne gli obiettivi: essa è uno strumento, deve essere progettata e riconfigurata perché sia a servizio di tutta l’umanità, per la sua realizzazione e la sua felicità. Da un’economia come si è sviluppata negli ultimi due secoli si deve andare verso una svolta, basata su reciprocità, fraternità e solidarietà. Che non vuol dire stravolgere le logiche di mercato, di libero scambio, di profitto, ma trasformarle da fini in mezzi; ponendo al centro la persona e non l’individuo, isolato e centrato su se stesso, la comunità e non la massa; considerando le alternative al prodotto interno lordo, quali il benessere equo e solidale, l’indicatore del progresso reale o di sostenibilità, la felicità nazionale lorda; passando da un capitalismo egoista a un capitalismo sociale, fatto da imprese sociali.

Se vogliamo un mondo nel quale la disoccupazione non esista, nel quale non ci siano concentrazioni della ricchezza, nel quale l’ambiente è salvaguardato, vanno attivati gli strumenti adeguati, va pensata e realizzata un’economia in grado di perseguire tali obiettivi.

L’economia tradizionale non può essere trasformata in un batter d’occhio, ma la crisi è l’occasione per avviare il cambiamento. Chi lo auspica deve iniziare a far sentire la sua voce, coinvolgere l’opinione pubblica, attivare un movimento in grado di fare pressione sui governi perché creino le condizioni per la crescita di una diversa economia e di un’imprenditoria sociale. Un’impresa che non rinuncia al profitto, ma che ha come scopo dare lavoro, creare benessere collettivo, mettere a frutto i proventi non solo in dividendi agli azionisti e premi per i top manager, puntare alla realizzazione delle persone e alla crescita del territorio; un’impresa gestita in modo democratico, con responsabilità condivise e diffuse, trainata dalla consapevolezza sociale e ambientale.

Per fare ciò non si parte da zero. L’economia civile, ad esempio, ha una storia secolare e oggi è attiva, anche nel nostro Paese; le imprese sociali esistono in tutto il mondo e le loro peculiarità possono essere di esempio e fornire modelli.

Il cambio di paradigma dev’essere globale, l’economia va orientata e controllata attraverso gli organismi mondiali, non più al servizio della corrente dominante, ma delle persone e dei popoli. Si dovrebbe andare verso un ridisegno della governance, ragionando su un modello differente, secondo una logica glocal, una visione, una politica, che si concentri contemporaneamente sulla dimensione planetaria e su quella locale. Un esempio può essere il progetto dell’UE propedeutico al Green deal: l’individuazione e la creazione di bioregioni, aree anche sovranazionali con particolare omogeneità e vocazione, industriale, agricola, culturale, ma con il massimo delle connessioni col resto del Continente e del mondo.

Sempre sul versante economico per rispondere alla sfida della crisi, si tratta di scegliere la direzione degli investimenti, spostando, ad esempio, risorse dal settore dei combustibili fossili e dalle industrie collegate per reinvestirli nell’economia verde.

La politica: una guida all’altezza dei problemi

La politica deve anch’essa evolvere. Gli elementi fondamentali sono il suo rilancio, a partire dalla partecipazione, con strumenti innovativi; sono la capacità di guardare oltre i ristretti orizzonti dei risultati elettorali per progettualità di ampio respiro, le uniche in grado di affrontare seriamente i problemi; sono la qualità delle persone impegnate, la loro competenza, l’esperienza, lo spirito di servizio.

Si tratta di ritornare, attualizzandoli, ai principi della Costituzione, per l’Italia, e di quelli fondanti l’Europa, puntando a riprendere il processo mai completato di una Costituzione comunitaria europea.

Le difficoltà enormi potranno essere affrontate solo in una dimensione internazionale, con un’idea policentrica e multicentrica delle relazioni globali, in cui organismi quali l’ONU o l’UE, quali la Banca centrale europea o l’Organizzazione del commercio, non siano solo delle assemblee e delle istituzioni burocratiche e poco incisive nell’affrontare le grandi sfide: c’è bisogno di democrazia, trasparenza, efficacia. C’è bisogno di ricreare, come dopo tutti i grandi sconvolgimenti, una classe dirigente di donne e uomini di valore, pacati e coraggiosi, competenti e in grado di ascoltare i bisogni dei molti con progetti e programmi che riducano le disuguaglianze e plasmare, in modo equo e solidale, la ricchezza prodotta. Una rinascita democratica vera e non a parole e a colpi di like. Un processo complicato, ma necessario.

Nel concreto si è aperta la fase 2. La politica deve essere all’altezza della situazione con indirizzi chiari, e prospettive solide, certo a partire dalle indicazioni degli “esperti”, ma prendendosi la responsabilità, tipica dell’amministrare, di scegliere e di guidare. Ora più che mai per la complessità della situazione e del futuro c’è bisogno di lavoro di squadra, non certo di un uomo forte, solo al comando. Il sistema democratico ha le sue regole, che vanno rispettate, anche se adattate alle contingenze: facciamoci guidare da esse e dal buon senso eticamente ispirato.

Molti interrogativi

Tanti aspetti, numerose questioni ancora andranno affrontate, ne facciamo un elenco disordinato e certo non esaustivo, spunti da lasciare all’informazione e alla riflessione personale.

La pandemia ha riproposto il valore centrale della salute, i problemi dei sistemi sanitari, dei farmaci e di chi li produce, in tutte le parti del mondo. Dobbiamo preoccuparci del sistema sanitario italiano, ma allo stesso tempo della situazione di chi è lontano. Il virus va combattuto per tutta l’umanità. I paesi sviluppati possono farlo da soli, ma dobbiamo aumentare le risorse disponibili per i paesi in via di sviluppo. È necessario riguadagnare la sovranità sanitaria, reindirizzare le politiche pubbliche verso la “buona salute”, vale a dire un miglioramento complessivo dello stato di salute della popolazione.

Serve probabilmente uno screening globale, ma i dati andranno depositati con qualche forma di tutela della privacy in una piattaforma blockchain a disposizione delle autorità.

Il vaccino e le cure salveranno vite umane, serve però un supplemento d’anima, un’idea di futuro, che già mancavano prima della pandemia e oggi non hanno possibilità di essere differiti. Bisogna chiudere i confini tra il virus e l’uomo, non quelli tra uomo e uomo, tra nazione e nazione.

Oltre a riaprire fabbriche, negozi, scuole, vanno riattivate le idee.

La pandemia ha sottolineato ed esacerbato le iniquità, le disuguaglianze, la disuguaglianza di genere.

Bisognerà studiare nuove modalità di comportamento, studio, lavoro, vita sociale, dovranno essere studiati di nuovo i teatri, gli stadi, i cinema, gli aerei; col rischio evidente di costi di accesso più elevati e dunque negati per molti.

La scuola è stata profondamente coinvolta, ne può derivare un ripensamento per contenuti e metodi, per far nascere una formazione più adatta a contribuire alla crescita integrale dei giovani, più adeguata alle esigenze del mondo in evoluzione.

Come alcuni osservatori avevano fatto notare anche in precedenza la globalizzazione andrebbe gestita per blocchi solidali, forse più piccoli di un continente. L’Europa deve essere capace di coesione, magari a partire da alcuni paesi, un po’ come è stato all’inizio del percorso che ha portato all’UE; ma per la riorganizzazione dei blocchi serve una base teorica, una prospettiva ragionata, possibile, a dimensione umana, in tempi non astrattamente futuribili, avendo come sottofondo una visione, dei valori, un progetto, per poi agire nella pratica. E c’è bisogno di persone capaci di assumere la guida di un tale processo politico.

In merito alle competenze statali e regionali la crisi ha messo in luce la necessità di verificarle, con l’esigenza di qualche correzione. La pandemia, ad esempio, ha evidenziato alcuni problemi dovuti alla scelta di regionalizzare la sanità senza una forte responsabilità e regia nazionale.

Dalla pandemia emergono riflessioni anche in merito alla fede. Lo shock può essere l’occasione per andare più in profondità e alla sua essenza.

 

 

Le fonti

Del Covid-19 sono stati e sono pieni tutti i mezzi di informazione, e i social sono stati invasi da messaggi, video, fotografie e molto altro sulla pandemia. Ma sono state anche diffuse un mucchio di bufale e tanti si sono improvvisati grandi esperti del fenomeno.

Visto che siamo ancora nel mezzo della crisi non riteniamo opportuno alcun suggerimento, se non quello, che vale in ogni caso, di informarsi prestando attenzione alle fonti.

Per chi desidera avere un aggiornamento costante della situazione mondiale è utile accedere a questa pagina WEB del quotidiano The Guardian.