Pace e memoria: due giornate da celebrare e vivere

Il fatto

Gennaio è scandito da due importanti occasioni per riflettere, convertirsi e agire, collocate all’inizio e alla fine: le giornate della pace e della memoria, rispettivamente il primo e il 27 del mese.

La Giornata Mondiale della Pace è stata istituita nel 1968 da papa Paolo VI. Nel messaggio di indizione il Pontefice, proponendo la riflessione del Concilio sull’argomento, interpellava non solo la Chiesa, ma «tutti i veri amici della pace», a cominciare dagli organismi internazionali istituiti a questo scopo e tutte le persone di buona volontà, invitandoli a celebrare tale ricorrenza; puntualizzando che la pace «vera […], giusta ed equilibrata», deve presupporre «il riconoscimento sincero dei diritti della persona umana e l’indipendenza delle singole nazioni» e che la «promozione dei diritti dell’uomo» è il «cammino della pace». A partire dal 1968 il papa diffonde un messaggio nel quale invita a riflettere su un aspetto particolare del tema.

In occasione della 53a giornata papa Francesco ha intitolato la sua riflessione «la pace come cammino di speranza: dialogo, riconciliazione e conversione ecologica».

La speranza deve essere «la virtù che ci mette in cammino», anche verso il bene prezioso della pace. La comunità umana porta i segni delle guerre, che colpiscono soprattutto i più poveri e i più deboli, vittime ugualmente dello sfruttamento e della corruzione, che negano dignità, libertà e futuro. La guerra è sempre un fratricidio, e comincia con «l’insofferenza per la diversità dell’altro, che fomenta il desiderio di possesso e la volontà di dominio».

La pace va perseguita attraverso un percorso fatto in primo luogo di ascolto, di comprensione dell’altro e di dialogo, basato sulla memoria, sulla capacità di ricordare e attualizzare, oggi meno diffusa e praticata, su un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, sulla salvaguardia dei diritti di ciascuno, sulla solidarietà e la fraternità, il contrario del fratricidio.

Il Papa non limita il concetto di pace alle relazioni personali e tra comunità, lo allarga al rapporto con la «casa comune», la Terra, con l’ambiente, e la necessità di rispettarli e non abusarne attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali come strumento utile solo al profitto.

L’augurio finale è rivolto a ciascuna persona, perché «venendo in questo mondo, possa conoscere un’esistenza di pace e sviluppare pienamente la promessa d’amore e di vita che porta in sé».

Purtroppo nel mondo la pace non è una condizione acquisita, infatti vi sono una trentina di guerre e molte situazioni di crisi che hanno gravi ripercussioni per le popolazioni coinvolte e per tanti altri innocenti, come i passeggeri dell’aereo ucraino abbattuto recentemente in Medio Oriente. La minaccia di un terribile conflitto globale è sempre da non sottovalutare.

Ispirata anche dai principi prima citati, nel 2000 in Italia è stata istituita la Giornata della Memoria.

Il 27 gennaio di ogni anno il Paese celebra questa ricorrenza al fine di rievocare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio e, a rischio della propria, hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

La data, simbolica, è stata scelta in relazione alla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz avvenuta proprio in quel giorno del 1945.

Altri stati hanno istituito la stessa ricorrenza e l’Assemblea Generale dell’ONU l’ha fatta propria approvando nel 2005 una risoluzione sul tema, nella quale si afferma che tutte le nazioni hanno il dovere di inculcare nelle generazioni future le «lezioni dell’Olocausto» e di condannare senza riserve l’intolleranza, l’odio e l’aggressività verso persone e comunità motivate da differenze religiose ed etniche.

La base teorica da cui prende spunto la decisione è la Dichiarazione universale dei diritti umani, nella quale si sancisce che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti», che vanno difesi il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza personale e alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione.

 

 

 

Il commento

Pace e memoria, sono una coppia di parole che stanno bene insieme, pur rappresentando due differenti aspetti della vita. Riproporle è sempre importante, soprattutto dopo i dati emersi dal rapporto 2020 sull’Italia realizzato dall’Eurispes, secondo i quali per il 15,6% degli italiani lo sterminio degli ebrei da parte di nazisti non è mai avvenuto e un altro 16,1% ne ridimensiona la portata: insomma, per quasi un terzo dei connazionali è una questione poco significativa!

Si tratta quindi di continuare a tener viva l’attenzione per queste parole.

La pace è una situazione di non belligeranza, di assenza di tensioni, di concordia nei rapporti personali e sociali, è una condizione di tranquillità, serenità, di mancanza di preoccupazioni. Più ricco è il senso biblico del termine: è vita piena, in tutti i sensi, e salvezza, frutto del rapporto con Dio.

La memoria è la capacità di conservare traccia di informazioni dovute all’esperienza e saperle rievocare e utilizzare. Il concetto è presente nella Scrittura e, anche in questo caso, si ampia di significato: non è solo in relazione con il passato, ma soprattutto con il presente per costruire il futuro, attualizzando, prendendo coscienza, agendo. Sant’Agostino affermava infatti: «la memoria è il presente del passato». Fare memoria significa darsi da fare ora, altrimenti è una pura questione intellettuale.

Le due ricorrenze che presentiamo si fondano su tutto ciò.

Non solo, la Giornata della Memoria prende spunto da una situazione di guerra, di sopraffazione dell’uomo sull’uomo, il contrario della pace, ma con la forte indicazione di attualizzarne i contenuti e di operare di conseguenza nell’oggi. La celebrazione non va considerata solo come un omaggio alle vittime del nazismo, quanto un’occasione di riflessione su una storia che ci riguarda da molto vicino; infatti con la Risoluzione del 2005, l’Onu ha voluto sì commemorare le vittime della Shoah, ma anche «condannare tutte le manifestazioni di intolleranza, incitamento, molestia o violenza contro persone o comunità, sia su base etnica che religiosa», e questo vale per il tempo presente e il futuro.

Evitare che si ripetano i drammi significa perseguire la pace, adoperarsi e lottare per essa, in tutta la ricchezza semantica prima ricordata.

È necessario quindi leggere i segni dei tempi, comprendere chi e quali situazioni siano attualmente e in prospettiva di conflitto, di sfruttamento e sopraffazione, e individuare le iniziative personali, sociali, economiche e politiche da realizzare.

Pace e memoria significano anche conoscenza. Ignorare fatti, personaggi, motivazioni e meccanismi che hanno condotto a determinati sviluppi conduce a non tenerne conto e non interpretare il momento attuale. Ad esempio non sapere e capire cosa accadde in Italia o in Germania dal punto di vista storico, con l’affermazione del fascismo e del nazismo, le loro misure liberticide, le leggi razziali, l’Olocausto e la guerra, vogliono dire non essere in grado di leggere alcuni fenomeni presenti oggi e lasciarsi ingannare.

Ogni persona si deve sentire interpellata, per essere lei, in primo luogo, donna o uomo di pace, brava a fare memoria, a vivere nella Storia, a esserne attiva protagonista, nella fedeltà al “piccolo” che possiamo fare e che ci circonda.

 

 

 

Le fonti

La proposta di una Giornata mondiale della pace venne lanciata da papa Montini l’8 dicembre del 1967 e realizzata pochi giorni dopo nel Capodanno successivo.

Paolo VI affermava: «sarebbe Nostro desiderio che poi, ogni anno, questa celebrazione si ripetesse come augurio e come promessa – all’inizio del calendario che misura e descrive il cammino della vita umana nel tempo – che sia la pace con il suo giusto e benefico equilibrio, a dominare lo svolgimento della storia avvenire».

La documentazione sulla ricorrenza è facilmente accessibile sul sito vatican.va: nelle pagine dedicate ai papi, da Paolo VI in avanti, si trova una sezione contenente tutti i messaggi diffusi in questa occasione.

Ecco, allora, il messaggio di papa Francesco per la giornata della pace del 2020.

La Giornata della Memoria fu istituita nel nostro Paese dalla legge n. 211 del 20 luglio 2000, composta di due soli, brevissimi, articoli. Ecco il testo.

«Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.

Art. 1.

  1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Art. 2.

  1. In occasione del “Giorno della Memoria” di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».

Prima di arrivare a definire il disegno di legge, si discusse a lungo su quale dovesse essere considerata la data simbolica di riferimento. Due, in particolare, erano le opzioni suggerite. Il deputato Furio Colombo aveva proposto il 16 ottobre, giorno, nel 1943, del rastrellamento del ghetto di Roma, nel quale oltre mille cittadini italiani di religione ebraica furono catturati e deportati dalla Capitale ad Auschwitz. Questa ricorrenza avrebbe permesso di focalizzare l’attenzione sulle deportazioni razziali e di sottolineare le responsabilità anche italiane nello sterminio. LAssociazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti sosteneva, piuttosto, che la data prescelta dovesse essere il 5 maggio, anniversario della liberazione di Mauthausen, per sottolineare la centralità della storia dell’antifascismo e delle deportazioni politiche in Italia.

La scelta cadde, infine, sul giorno della liberazione di un altro campo di sterminio, Auschwitz, in ragione della portata evocativa che da anni esso possedeva per tutta l’Europa, ormai simbolo universale della tragedia ebraica durante la Seconda guerra mondiale. In effetti altri ebrei, italiani e non solo, vennero uccisi nelle settimane seguenti, ma la data del 27 gennaio venne giudicata più adatta di altre a simboleggiare la Shoah e la sua fine.

Il Giorno della Memoria è diventato una ricorrenza internazionale, celebrata sempre il 27 gennaio di ogni anno, come occasione per commemorare le vittime dell’Olocausto, in base alla risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005, approvata durante la 42ª riunione plenaria. La decisione fu preceduta da una sessione speciale tenuta il 24 gennaio 2005 durante la quale l’ONU celebrò il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti e la fine della Shoah.

Secondo il testo dell’Assemblea ogni anno, nel giorno che ricorda la liberazione del lager di Auschwitz, tutti gli stati membri delle Nazioni Unite hanno il dovere di inculcare nelle generazioni future le «lezioni dell’Olocausto»: a questo scopo è stata istituita una task force internazionale per l’educazione, la ricerca e il ricordo. La risoluzione rifiuta inoltre in modo chiaro qualsiasi tentativo di negazione della Shoah come evento storico, sia totale sia parziale, auspicando altresì che vengano conservati come luoghi della memoria i siti nei quali un tempo erano contenuti i campi di concentramento, di lavoro e di sterminio. In questa giornata devono essere condannati senza riserve l’intolleranza, l’odio e l’aggressività verso persone e comunità motivate da differenze religiose ed etniche.

Come già sottolineato i principi dai quali il documento, e la ricorrenza, prendono spunto sono espressi nella Dichiarazione universale dei diritti umani.

Vediamo ora cosa accadde quel 27 gennaio del 1945.

Sono le battute finali della tragedia legata alla Seconda guerra mondiale. Le forze che combattono il nazifascismo stanno avendo la meglio e le truppe tedesche sono in ritirata. La sessantesima armata dell’esercito sovietico in quel giorno abbatte il cancello, quello con la scritta «Arbeit macht frei» (il lavoro rende liberi), ed entra nel complesso dei lager di Auschwitz, situato in Polonia, non molto distante da Cracovia, nei pressi del confine tedesco, che comprendeva anche il campo di sterminio di Birkenau e il campo di lavoro di Monowitz.

Nell’estate del 1944, l’offensiva sovietica portò l’esercito fino alla Vistola, a circa 200 chilometri da Auschwitz e all’inizio del 1945 cominciò l’Operazione Vistola-Oder, l’offensiva dell’Armata Rossa per muovere verso il cuore della Germania. I vertici nazisti si resero conto della necessità di procedere con lo smantellamento del lager. Le forze sovietiche entrarono nel campo di Majdanek, vicino a Lublino, sempre in Polonia, nel luglio del 1944, e conquistarono anche le zone in cui si trovavano i campi di sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka. Nel novembre del 1944 il ministro dell’interno nazista Heinrich Himmler ordinò di distruggere le camere a gas di Birkenau rimaste ancora in funzione, ma non quelle di Auschwitz, e il 17 gennaio del 1945 nel campo venne fatto l’ultimo appello generale dei prigionieri.

Le SS cominciarono dunque a evacuare il lager a metà gennaio del ‘45. Migliaia di prigionieri furono uccisi mentre altri, circa 60.000, furono costretti a un’evacuazione forzata e a prendere parte a quelle che sarebbero poi divenute famose come le «marce della morte», che procedettero in due diverse direzioni: verso nord-ovest, fino a Gliwice, per 55 chilometri lungo i quali vennero raccolti anche i prigionieri dei sottocampi dell’Alta Slesia Orientale (Bismarckhuette, Althammer e Hindenburg); e verso ovest, per circa 60 chilometri, in direzione di Wodzislaw. Durante il cammino, le guardie spararono a chiunque cedesse e non fosse più in grado di proseguire: è stato calcolato che circa 15.000 prigionieri siano morti durante questi trasferimenti forzati. I sopravvissuti furono caricati su treni merci e portati nei campi di concentramento in Germania.

Il 27 gennaio, verso mezzogiorno, le prime truppe sovietiche entrarono ad Auschwitz, dove incontrarono circa 7.000 prigionieri lasciati nel campo. Molti erano bambini e una cinquantina di loro aveva meno di otto anni, sopravvissuti perché usati come cavie per la ricerca medica. I soldati trovarono anche cumuli di vestiti e tonnellate di capelli pronti per essere venduti, e poi occhiali, valigie, utensili da cucina e scarpe: il museo di Auschwitz, tra le altre cose, ne possiede più di 100.000.

È possibile leggere una testimonianza significativa e toccante della liberazione nel primo capitolo de La tregua di Primo Levi, che si trovava nel campo di Monowitz.

 

«La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.

Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.

A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.

Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.

Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo.

[…] Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni. Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi.

[…] Il mattino ci portò i primi segni di libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che con pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggì come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti.

A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi».

 

Concludiamo col proporre i testi di alcune poesie sulla Shoah, iniziando da una dello stesso Primo Levi, e sulla pace.

 

Poesie sulla Shoah

 

Primo Levi, da Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per un pezzo di pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.

 

Anna Frank, Aprile

Prova anche tu,

una volta che ti senti solo

o infelice o triste,

a guardare fuori dalla soffitta

quando il tempo è così bello.

Non le case o i tetti, ma il cielo.

Finché potrai guardare

il cielo senza timori,

sarai sicuro

di essere puro dentro

e tornerai

ad essere Felice.

 

Joice Lussu, C’è un paio di scarpette rosse

C’è un paio di scarpette rosse

numero ventiquattro

quasi nuove:

sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica

“Schulze Monaco”.

C’è un paio di scarpette rosse

in cima a un mucchio di scarpette infantili

a Buckenwald

erano di un bambino di tre anni e mezzo

chi sa di che colore erano gli occhi

bruciati nei forni

ma il suo pianto lo possiamo immaginare

si sa come piangono i bambini

anche i suoi piedini li possiamo immaginare

scarpa numero ventiquattro

per l’eternità

perché i piedini dei bambini morti non crescono.

C’è un paio di scarpette rosse

a Buckenwald

quasi nuove

perché i piedini dei bambini morti

non consumano le suole.

 

Pavel Friedman, La farfalla

L’ultima, proprio l’ultima,

di un giallo così intenso, così

assolutamente giallo,

come una lacrima di sole quando cade

sopra una roccia bianca

così gialla, così gialla!

L’ultima

volava in alto leggera,

aleggiava sicura

per baciare il suo ultimo mondo.

Tra qualche giorno

sarà già la mia settima settimana

di ghetto: i miei mi hanno ritrovato qui

e qui mi chiamano i fiori di ruta

e il bianco candeliere del castagno

nel cortile.

Ma qui non ho visto nessuna farfalla.

Quella dell’altra volta fu l’ultima:

le farfalle non vivono nel ghetto.

 

Paul Celan, Fuga di morte

Nero latte dell’alba lo beviamo la sera

lo beviamo al meriggio, al mattino, lo beviamo la notte

beviamo e beviamo

scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti

Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive

che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete

lo scrive e va sulla soglia e brillano stelle e richiama i suoi mastini

e richiama i suoi ebrei uscite scavate una tomba nella terra

e comanda i suoi ebrei suonate che ora si balla

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte

ti beviamo al mattino, al meriggio ti beviamo la sera

beviamo e beviamo

Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive

che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete

i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti

Egli urla forza voialtri dateci dentro scavate e voialtri cantate e suonate

egli estrae il ferro dalla cinghia lo agita i suoi occhi sono azzurri

vangate più a fondo voialtri e voialtri suonate che ancora si balli

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte

ti beviamo al meriggio e al mattino ti beviamo la sera

beviamo e beviamo

nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete

i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca coi serpenti

egli urla suonate la morte suonate più dolce la morte è un maestro tedesco

egli urla violini suonate più tetri e poi salirete come fumo nell’aria

e poi avrete una tomba nelle nubi lì non si sta stretti

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte

ti beviamo al meriggio la morte è un maestro tedesco

ti beviamo la sera e al mattino beviamo e beviamo

la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro

egli ti centra col piombo ti centra con mira perfetta

nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete

egli aizza i suoi mastini su di noi ci dona una tomba nell’aria

egli gioca coi serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco

i tuoi capelli d’oro Margarete

i tuoi capelli di cenere Sulamith

 

Vittorio Sereni, Pietà ingiusta

Mi prendono da parte, mi catechizzano:
il faut faire attention, vous savez.
Et surtout si l’affaire
Doit marcher jusq’au bout,
ne causez pas de ces choses bien passées.
Il paraît qu’il en fut un, un SS
qu’il a été même dans l’armée
quoique pas allemand…
Ecco in cosa erano
forza e calma sospette
l’abnegazione nel lavoro, la
cura del particolare, la serietà
a ogni costo, fino in fondo…
Intorno c’è aria di niente, mani
sulla tavola, armi (chi le avesse)
al guardaroba: solo adesso
si comincia a capire – e l’affare un pretesto
il pranzo un trucco, una messinscena
benché non esistano dubbi sulle portate

benché non ci siano orripilanti cataste sulla tavola né sotto
– ma in cucina, chi può dirlo?,
ah le dotte manipolazioni di cui furono capaci,
matasse, matassine innocue, oro a scaglie
da coprirne un deserto di sale, di nubi d’anime
esalanti-esulanti da camini
con la piena dolcezza degli stormi d’autunno
altre anche meno visibili spazzate da una raffica in un’ora di notte-
è una questione d’occhi fermi sul cammello che passa
e ripassa per la cruna in piena libertà –
e con tocchi di porpora una città
d’inverno, una città di cenere si propaga
dentro una lente di mitezza.
Solo adesso si comincia a capire.
Incredibile – dirò più tardi – le visioni
immotivate che si hanno a volte
(e pazienza per queste
ma esserne coinvolti al di là del giudizio
fino al tenero, fino all’indebita pietà …):
le giubbe sbottonate della disfatta, un elmo
ruzzolante tra i crateri, sugli argini maciullati
facce su facce lungo un canale a ridosso di un muro
un reparto in sfacelo che si sbraca, se ne fotte
della resa con dignità, ma su tutte
quella faccia d’infortunio, di gioventù in malora
con la sua vampa di dispetto di bocciato
di espulso dal futuro
nell’ora già densa della campagna
verso l’estate che verrà …
Tra poco apparecchieranno, porteranno
le cartelle per la firma. Si firmerà.
Si firmerà la pace barattandola con la nostra pietà –
e lui rimesso in sesto, risarcito di vent’anni d’amaro
bene potus et pransus arbitro dell’affare.
Non si vede più niente. Se non – per un incauto
pensiero, per quel momento di pietà – quella mano
quel mozzicone di mano sulla parete.
Ci conta ci pesa ci divide. Firma.
E tutti quanti come niente – come la notte
ci dimentica.

 

 

Poesie sulla pace

 

Bertold Brecht, I bambini giocano alla guerra.
I bambini giocano alla guerra.
È   raro che giochino alla pace
perché gli adulti
da sempre fanno la guerra,
tu fai “pum” e ridi;
il soldato spara
e un altro uomo
non ride più.

È la guerra.
C’è un altro gioco
da inventare:
far sorridere il mondo,
non farlo piangere.
Pace vuol dire
che non a tutti piace
lo stesso gioco,
che i tuoi giocattoli
piacciono anche
agli altri bimbi
che spesso non ne hanno,
perché ne hai troppi tu;
che i disegni degli altri bambini
non sono dei pasticci;
che la tua mamma
non è solo tutta tua;
che tutti i bambini
sono tuoi amici.
E pace è ancora
non avere fame
non avere freddo
non avere paura.

 

Giuseppe Ungaretti, Non gridate più

Cessate di uccidere i morti.

Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,

Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.

 

Salvatore Quasimodo, Uomo del mio tempo

 Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
-t’ho visto- dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero,
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
“Andiamo ai campi”. E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

 

Jaroslaw Iwaszkievicz, Il mondo fa paura

Il mondo fa paura

ma in esso nuotano

in un immenso acquario

betulle volpi

torrenti di fiori

strade di campagna

e case di legno

e ancora i concerti di Brahms

e i valzer di Chopin

 

Richard Riva, Dove termina l’arcobaleno

Dove termina d’arcobaleno

Deve esserci un luogo, fratello,

Dove si potrà cantare ogni genere di canzoni,

e noi canteremo insieme, fratello,

Tu ed io, anche se tu sei bianco e io non lo sono,

Sarà una canzone triste, fratello,

Perché non sappiamo come fa,

Ed è difficile da imparare, capo ma possiamo riuscirci, fratello, tu ed io.

Non esiste una canzone nera,

Non esiste una canzone bianca,

Esiste solo musica, fratello,

Ed è musica quella che canteremo

Dove termina l’arcobaleno.