Non è un paese per bambini: l’Atlante dell’infanzia di Save the Children

Il fatto

La sezione italiana di Save the Children, l’organizzazione internazionale che da cento anni combatte per i più piccoli, ha diffuso il decimo Atlante dell’infanzia a rischio intitolato Il tempo dei bambini.

Emerge una situazione che senza esagerazione può essere definita drammatica.

Questa che segue è una sintetica presentazione dei principali elementi che emergono dall’Atlante. Rimandiamo alla terza parte della pagina per ulteriori approfondimenti e, ovviamente, alla lettura del testo integrale.

Il primo dato conferma questa affermazione: negli ultimi 10 anni il numero dei minori che vivono in povertà assoluta è più che triplicato, passando, in percentuale, dal 3,7 del 2008 al 12,5 del 2018 (vale a dire uno su otto!): oggi 1 milione e 200.000 bambini non hanno i beni indispensabili per condurre un’esistenza accettabile. La crisi economica, che proprio nel 2008 ha avuto un’accelerazione, è stata pagata soprattutto dai più deboli, come i piccoli, e ha incrementato le disuguaglianze: tra bambini del sud e del nord, tra quelli che abitano nel centro delle città e quelli delle periferie, tra italiani e stranieri, tra coloro che frequentano scuole “bene” e chi è nelle classi “ghetto”.

Dalla fotografia emerge un paese, un popolo, che ha abbandonato uno dei tesori più grandi, gli adulti del futuro, e una classe politica e dirigente che non è stata capace, è non lo è tuttora, di affrontare il problema. In una realtà nella quale il fenomeno della denatalità è evidente, nel 2008 in Italia i minori rappresentavano il 17,1% della popolazione, mentre 10 anni dopo sono il 16,2%, la spesa sociale per l’infanzia si mantiene tra le più basse in Europa e con forti divari tra le differenti aree del paese.

La povertà ha molte sfaccettature, la più evidente è quella economica, ma per la fascia d’età considerata una delle più gravi è quella educativa e formativa.

I giovanissimi leggono poco, come gli adulti peraltro, hanno rare occasioni per avvicinarsi alla cultura, praticano sport in modo insufficiente. I bambini crescono in un contesto sempre più cementificato e con sempre meno verde.

Uno dei fenomeni nell’ambito formativo è l’interruzione degli studi che attualmente si assesta al 14,5%, contro un obiettivo europeo fissato al 10%. Ma il sistema scolastico non è deficitario solo in questo. I risultati delle prove Invalsi mostrano i nostri studenti con un livello di conoscenze inferiore alla media dei paesi OCSE, addirittura molto distante dai giovani di nazioni quali Regno Unito, Germania e Francia.

Un accenno particolare, nell’ambito scolastico, merita il tema della sicurezza. Secondo l’Atlante più della metà degli edifici non ha il certificato di agibilità.

La spesa per l’istruzione in Italia si è andata col tempo contraendo, raggiungendo oggi il minimo storico del 3,6% del PIL, contro un 4,5% in Germania, un 5,5% in Francia e un 5,7% nel Regno Unito. Meno di noi investono solo la Grecia e alcuni paesi dell’est europeo. Questo è un settore in cui la politica ha scelto di disinvestire massicciamente: ben 8 miliardi di tagli lineari in tre anni, dal 2009 al 2011: la spesa ha subito un vero e proprio crollo, fino all’attuale minimo storico.

Molto problematiche sono le situazioni concernenti in generale i servizi per la prima infanzia, quali gli asili nido, molto rari nel meridione, e altri come le mense scolastiche. Il commento di Save the Children è lapidario: «In tutti questi anni, nelle regioni del Mezzogiorno centinaia di migliaia di bambini piccoli sono stati privati di un’importante opportunità di sviluppo».

La povertà economica porta con sé conseguenze molto concrete. Carenze nell’alimentazione, situazioni abitative precarie: ad esempio, secondo i dati Eurostat, quasi un terzo delle famiglie italiane con figli in situazione di povertà relativa non riescono a riscaldare adeguatamente la propria casa e i bambini, molto semplicemente, patiscono il freddo.

Un altro aspetto posto in risalto è una crescente debolezza della funzione genitoriale e del loro ruolo educativo. È un problema di tempo e di tempi, di risorse culturali, di capacità di gestione dei figli. Il “mestiere” di genitore non viene insegnato e pochi sono gli strumenti per non affidarsi solo a ciò che si pensa. L’Atlante afferma, a questo proposito, che i bambini sono «ipercoccolati, iper-vigilati e vezzeggiati, non vengono istruiti a sufficienza con quelle regole indispensabili per crescere in armonia con gli altri. Fuori dalla famiglia, sperimentano un vuoto relazionale in un mondo sempre più adulto e adulto-centrico, nel quale le loro istanze sono destinate a contare sempre meno». Crescono poco attrezzati per affrontare le complessità di questo mondo, in particolare sul piano emotivo, delle relazioni e dei valori.

Questa fase critica ha finito per gravare, in Italia più che altrove, soprattutto sulle spalle delle famiglie con bambini, producendo nuovi squilibri generazionali e penalizzando le aspirazioni e le possibilità di crescita dei più piccoli. La deprivazione sperimentata fin dalla tenera età può dispiegare i suoi effetti lungo tutto il corso della vita, producendo conseguenze durature sulle condizioni di salute, sul percorso scolastico, sulla possibilità stessa di immaginare il futuro e di nutrire aspirazioni, sull’accesso al mercato del lavoro, e così via.

In tale scenario la politica ha gravi responsabilità. I Piani nazionali di azione e interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva, previsti dalla legge 451 del 1997, dopo due bienni, nel 2004 sono spariti dall’agenda politica per alcuni anni, fino al 2011 quando è stato varato il terzo. Il Quarto Piano nazionale, promulgato soltanto il 6 agosto del 2016, allorché gli effetti più preoccupanti della crisi si erano già manifestati, pur ribadendo l’esigenza di approvare il Livello essenziale nelle prestazioni (LEP, previsto dalla riforma del Titolo V della Costituzione) enunciando le azioni necessarie, non è stato accompagnato dalle risorse indispensabili per realizzarlo e ha mantenuto un ruolo di mero indirizzo politico. In tal modo il dibattito per la definizione di tale Livello, per garantire pari diritti fondamentali ai bambini di tutto il paese, è rimasto appannaggio dei soli addetti ai lavori e delle associazioni impegnate sul fronte dei diritti dell’infanzia.

Se in Italia stagnazione e crisi economica hanno colpito così duramente i piccoli la responsabilità è principalmente del tempo perso negli ultimi vent’anni sul fronte delle politiche e delle risorse per l’infanzia e le famiglie. Risorse e politiche che, come accaduto in altri Paesi europei, avrebbero potuto mitigare le conseguenze della crisi e che invece nel nostro Paese, per una serie di storture del welfare, hanno finito per colpire i bambini e i territori più fragili, quelle realtà che avrebbero necessitato di maggiore aiuto.

Vi sono diseguaglianze territoriali in termini di accesso ai servizi, e ancora una spesa per la protezione sociale che trascura i più giovani. Se è vero che complessivamente in questo settore l’Italia investe una fetta cospicua del PIL, superiore di 2 punti percentuali alla media europea (21,1% nel 2016 contro il 19,1% dell’UE), secondo Eurostat la quota destinata alla voce “famiglia e minori” è pari alla metà di quella dedicata da Germania, Regno Unito e Svezia (il 5,4% rispetto a circa l’11%) e decisamente inferiore alla media dei Paesi europei che è dell’8,5%.

Questo accade poiché il sistema degli interventi è soprattutto rivolto ai trasferimenti pensionistici e agisce in particolare nel ridurre l’esposizione al rischio povertà delle persone sole e delle coppie senza figli, specialmente in età avanzata, mentre sono poche e frammentate le misure dedicate alla protezione di bambini e adolescenti.

Ma discorsi analoghi si possono fare a proposito del grave ritardo con cui la politica italiana ha riconosciuto e affrontato lo specifico delle povertà minorili: soltanto a partire dal 2017 è stato introdotto ad esempio il Reddito di inclusione.

Save the Children, in occasione della pubblicazione dell’Atlante, ha rilanciato la campagna “Illuminiamo il futuro” rivolta al contrasto della povertà educativa, giunta al suo sesto anno, per chiedere il recupero di tanti spazi pubblici oggi abbandonati da destinare ad attività extrascolastiche gratuite per i bambini e scuole sicure per tutti. La mobilitazione, accompagnata sui social dall’hashtag #italiavietatAiminori, è associata a 16 luoghi simbolici negati ai minori, individuati con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui tanti luoghi inaccessibili ai piccoli nel nostro Paese.

 

 

 

 

Il commento

Può sembrare banale riprendere due concetti spesso ripetuti, ma che si riferiscono correttamente a quanto stiamo affrontando: i piccoli sono i grandi di domani; se in una società non si garantiscono i più deboli significa che c’è qualcosa di sbagliato.

È scontato affermarlo, però di banale in tutto questo non c’è alcunché, in quanto si sta parlando della vita di tante persone giovani.

Crediamo sia importante tener presente ciò: dietro ai dati ci sono bambine e bambini, ragazze e ragazzi in carne e ossa, che hanno un nome e un cognome. Riflettiamo sui numeri dando loro un volto e una voce, considerando il totale come la somma di tante, tantissime, singolarità. I problemi sono di carattere generale, e come tali vanno affrontati, ma riguardano ciascuna persona nelle loro conseguenze concrete e quotidiane.

Una seconda considerazione è che questa situazione è in casa nostra, riguarda il nostro paese e chi vi abita, dovremmo quindi sentirla con forza.

Una terza è relativa alle cause: esse non sono dovute al caso, o a un destino cinico, a qualcuno che ci vuole male, ma sono frutto di scelte politiche e scarsa attenzione.

Responsabili siamo tutti: eletti ed elettori. I primi per non aver affrontato i problemi in maniera adeguata, gli altri, o almeno la grande maggioranza, per averli sottovalutati o non considerati e non essersi impegnati in prima persona.

Emerge con chiarezza, infatti, l’assenza di un progetto complessivo per affrontare le questioni evidenziate e per rispondere alle sfide, sempre più difficili, dei prossimi decenni, che il paese, e i giovani in particolare, dovranno sostenere in un mondo nel quale i cambiamenti avanzano a grande velocità.

Si tratta di costruire una strategia di sviluppo sostenibile che includa i giovani, li valorizzi, punti proprio su di loro per innovare.

Sul fronte della tutela dei minori si è perso troppo tempo. Già a metà degli anni Novanta l’istituzione delle prime Commissioni di indagine sulle povertà e sull’esclusione sociale, e la pubblicazione dei dati da parte dell’Istat, avevano evidenziato numerose problematiche: nel 1996 l’Istituto certificava che i minorenni presentavano tassi di povertà superiori non solo agli adulti, ma anche agli anziani. Dopo un’iniziale reazione, che aveva portato in quell’anno alla predisposizione di un Primo Piano d’Azione per l’infanzia e l’adolescenza, nel 1997 alla legge 451 per l’istituzione della Commissione Parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza e l’Osservatorio nazionale per l’infanzia, alla legge 285 che istituiva il Fondo Nazionale Infanzia e Adolescenza, al rafforzamento delle Commissioni di indagine, tale spinta si è andata esaurendo nel tempo. Come ha ricordato più volte Chiara Saraceno, a capo delle Commissioni di indagine dal 1996 al 2001: «malgrado la pubblicazione di rapporti sempre più puntuali, la povertà minorile è rimasta tenacemente fuori dall’agenda politica».

Sono stati realizzati alcuni interventi sporadici, mai inseriti in una progettualità più ampia, quali l’assegno per il terzo figlio, il bonus bebè, i contributi ai nuclei familiari. Anche nella fase più grave della crisi, dal 2008 al 2014, sono state avviate timide iniziative politiche prive di convinzione e con poche risorse: al punto da ricevere nel 2014 un richiamo da parte del Consiglio dell’UE.

L’Italia dovrebbe elaborare un serio Piano strategico per l’infanzia e l’adolescenza, investire risorse appropriate in spesa sociale, superando gli squilibri esistenti nell’accesso ai servizi e alle prestazioni, aiutando proprio i bambini e le famiglie più in difficoltà ad affrontare gli effetti della crisi.

Un primo passo per l’ingresso almeno del tema della povertà educativa nell’agenda politica è stato il varo di un Fondo nazionale di contrasto alla povertà educativa minorile, istituito con la legge di stabilità per il 2016 e sostenuto dalle Fondazioni di origine bancaria. A questo si è associato l’incarico affidato dal parlamento all’Istat di definire i parametri utili a individuare le aree con una maggiore povertà educativa, allo scopo di concentrare gli investimenti. È indispensabile però che tale lotta diventi un obiettivo perseguito dai diversi ministeri e da tutti i livelli amministrativi.

Molto altro andrebbe fatto.

Il percorso dell’istruzione necessita di una profonda riforma, soprattutto nella scuola secondaria, perché risponda alle esigenze formative e di preparazione al mondo del lavoro. Gli spazi e le opportunità aggregative per i minori andrebbero sostenuti con maggiori risorse, occorrerebbe favorire e potenziare l’associazionismo giovanile.

Le politiche nei confronti della famiglia dovrebbero essere tra le priorità, sotto diversi versanti: quello economico, quello abitativo, quello del supporto al ruolo genitoriale. Perché la televisione pubblica, solo per fare un esempio, non affronta questo tema come importante servizio, facendo da alternativa a messaggi sull’argomento che provengono da ben altro tipo di media?

Lo sport dovrebbe essere una componente imprescindibile della crescita, una pratica formativa, non rivolta alla creazione di campioni, con un’offerta ampia di discipline e un approccio autenticamente educativo. La scuola potrebbe fare da traino, ma affiancata da opportunità per il tempo libero e strutture adeguate.

C’è poi l’impegno che ciascuno potrebbe e dovrebbe portare avanti, scegliendo come, dove e quanto farsi coinvolgere.

 

 

 

 

Le fonti

Save the children è nata cento anni orsono grazie all’impegno di Eglantyne Jebb, interpellata profondamente dalle tragiche conseguenze della Prima guerra mondiale per i bambini. Un forte elemento ispiratore è stato la constatazione che i minori non avevano diritti: l’idea rivoluzionaria, per quei tempi e non solo, era proprio l’affermazione dell’assoluta necessità per i piccoli di essere soggetto di diritti. Questa intuizione ha avuto un momento significativo nella Convenzione ONU sul tema. A partire dal 1920 l’organizzazione ha avviato una notevole quantità di iniziative in tutto il mondo, che invitiamo a scoprire nel sito dell’associazione.

Passando ai dati contenuti nell’Atlante partiamo dall’investimento pubblico.

La spesa dei comuni italiani per i servizi socioassistenziali nel 2010 ammontava a circa 7 miliardi e 130 milioni di euro, per scendere a 6,8 miliardi nel 2013 e risalire, secondo gli ultimi dati disponibili, a 7 miliardi nel 2016.

Considerando la spesa sociale media annua per l’area famiglia e minori, che è di 172 euro pro capite, l’aspetto che più colpisce è l’enorme disparità di cifre tra le varie regioni: si va dai 26 euro della Calabria ai 316 dell’Emilia-Romagna. Un divario che penalizza il Sud e in particolare tutte quelle aree che sono state colpite dalla mancata definizione del Livello Essenziale nelle Prestazioni sociali, del quale abbiamo accennato sopra (per una panoramica iniziale è disponibile la voce relativa nel Dizionario Treccani WEB).

La povertà educativa e la deprivazione culturale dei giovanissimi sono confermate da alcuni numeri. Quasi il 50% dei minori non leggono durante l’anno un libro oltre a quelli scolastici, con profondi divari regionali, che vedono Campania (64,1%), Calabria (65,9%) e Sicilia (68,7%) agli ultimi posti; quelli che non svolgono sufficienti attività culturali sono il 70%, con le consuete disparità tra le diverse aree del paese. Anche lo sport resta per molti un privilegio: in Italia circa il 20% (tra i 6 e i 17 anni) non pratica sport e il 15% svolge solo qualche attività fisica.

I bambini e gli adolescenti italiani crescono in un contesto in cui c’è sempre meno verde, con un aumento di 30.000 ettari di territorio cementificato dal 2012 al 2018. Il 37% dei minori si concentra in 14 grandi aree metropolitane, ambienti non propriamente a misura di bambino.

L’abbandono scolastico negli ultimi dieci anni aveva guadagnato qualche punto percentuale, ma dal 2016 la tendenza è cambiata passando dal 13,8% di quell’anno al 14,5 del 2018.

I risultati delle prove Invalsi e dei test sulle competenze scientifiche pongono gli studenti italiani, per i secondi, 12 punti sotto la media dei paesi OCSE, con differenze evidenti in quanto a collocazione geografica (ad esempio nel nord est e nel nord ovest i giovani hanno ottenuto punteggi superiori a tale media), indirizzo di studi e situazione socioculturale.

Riguardo all’edilizia scolastica i dati mostrano alcune regioni del Centro e del Sud nelle quali il certificato di agibilità non è posseduto da oltre il 70% delle strutture e, in generale, quasi un terzo di esse non ha fatto il collaudo statico, importante in un’area, come la nostra, esposta ai terremoti e ad altri fenomeni quali frane e smottamenti. Per questa ragione Save the Children e Cittadinanzattiva ad aprile 2019 hanno presentato un manifesto in nove punti nel quale si chiede ai parlamentari di depositare e discutere una proposta di legge in grado di superare l’attuale frammentazione normativa per garantire spazi sicuri e protetti dove poter apprendere o lavorare senza rischi.

I servizi per la prima infanzia sono globalmente insufficienti: in media solo il 13% dei bambini da zero a due anni sono presi in carico dai comuni. Ma se in Emilia-Romagna, Toscana e provincia di Trento si supera la soglia del 25%, in Campania e Calabria si è sotto il 4%. Vale la pena di ricordare che il traguardo fissato dall’UE a Lisbona era il 33%! La spesa per bambino passa dai 2.200 euro investiti dalla provincia di Trento ai 1.600 di Emilia-Romagna e Lazio, al Veneto con 500, per trovare la Puglia con 285, la Campania con 219 e la Calabria con 90; la spesa media è 808 euro. Alla faccia dell’uguaglianza dei cittadini!

Passando alla situazione economica, il lavoro compiuto in questi anni dall’Istat sul fronte degli indicatori della povertà permette di ricostruire in maniera più precisa la realtà e le conseguenze del fallimento della politica sull’infanzia. Nel 2008 appena un minore su 25 (il 3,7%) era in povertà assoluta, un decennio dopo si trova in questa condizione ben un minore su otto (12,5%). L’impennata si ha in particolare tra il 2011 e il 2014, quando il tasso raddoppia, passando dal 5% al 10%, e nel giro di pochi anni la povertà minorile, da fenomeno marginale, si è trasformata in una questione grave e urgente. In termini assoluti, i numeri fanno ancora più effetto: nel 2008 i minori in questa condizione erano circa 375.000, oggi, abbiamo visto, superano il milione e 200.000. Mettendo a confronto il grafico della povertà assoluta delle diverse fasce d’età, si può osservare come non sia andata molto meglio ai giovani tra i 18 e i 34 anni, passati dal 4% del 2008 a oltre il 10% del 2018. La fascia degli adulti, un po’ più protetta dal sistema di welfare, ha patito la recessione e la stagnazione in maniera relativamente più contenuta, vedendo comunque aumentare l’incidenza della povertà dal 3 all’8%. Solo gli over 65, quindi, non hanno praticamente subito danni nel periodo analizzato. Per avere una conferma dell’impatto diseguale della crisi, del resto, basta osservare la sua influenza sulle famiglie: nel decennio la crescita della povertà si concentra prevalentemente tra le famiglie con figli minori, con incrementi di 11,9 punti percentuali in quelle con tre o più figli, e di quasi 8 punti in quelle con uno o due figli, mentre nelle coppie senza figli e nei singoli sotto i 65 anni l’incremento della povertà è molto più contenuto (4 e 2,3 punti).

Anche l’indicatore dalla povertà relativa, una misura che restituisce la quota di individui che hanno un livello di spesa ben al di sotto della media nazionale, aiuta a comprendere quanto il periodo difficile attraversato dall’Italia sia stato pagato in misura maggiore proprio dai bambini e dai ragazzi: tra il 2008 e il 2018 i minorenni in questa condizione sono passati dal 12,5% al 22% (quasi 2 milioni e 200.000, più di uno su cinque), mentre la popolazione in povertà relativa è cresciuta complessivamente dall’11% al 15% (circa uno su sette). I dati sulla crescita delle povertà nel decennio mostrano come l’effetto combinato della crisi e della diversa offerta di servizi e di politiche per le famiglie nei differenti contesti regionali abbia contribuito ad accentuare i già profondi divari territoriali del Paese. Tra il 2014 e il 2018 nel Nord-Est il tasso di povertà assoluta è rimasto stabile intorno al 10%, nel Nord Ovest è salito dal 10 al 12,6%, con il dato più elevato in Piemonte, mentre nel Sud è addirittura raddoppiato dall’8 al 16%, e nelle Isole è al 15%. Così, nel 2018, risulta che il 45% dei minori in povertà assoluta in Italia risiede nel Mezzogiorno. I divari territoriali sono resi manifesti in particolare grazie all’indicatore della povertà relativa: se in Emilia Romagna e Liguria poco più di un bambino su dieci vive in famiglie con un livello di spesa molto inferiore a quello della media nazionale, e nelle regioni centrali lungo l’Appennino sperimenta questa condizione circa un bambino su cinque, scendendo più a Sud il balzo è enorme, con percentuali che raggiungono il 35% nelle Isole, il 37,5% in Campania e il 43% in Calabria.

La povertà si manifesta nella mancanza di beni essenziali, dello stretto indispensabile per una vita dignitosa, come l’alimentazione: sono circa 500.000 i bambini e i ragazzi sotto il 15 anni (il 6% della popolazione di riferimento) che vivono in famiglie dove non si consumano regolarmente pasti proteici e 280.000 sono costretti a un’alimentazione povera di proteine e di verdure. Nel 2018, per quella fascia d’età, in oltre 450.000 hanno beneficiato di pacchi alimentari.

Le medie nazionali nascondono un altro fenomeno peculiare, quello della concentrazione della povertà tra le famiglie di stranieri, cioè con genitori immigrati in Italia dall’estero: oggi come nel 2008, circa un terzo delle famiglie in povertà è costituito da quelle straniere (malgrado rappresentino poco più di un decimo del totale delle famiglie residenti), concentrate prevalentemente nel Centro e nel Nord del Paese. Vive in povertà un bambino su venti nelle famiglie di italiani del Centro Nord, uno su nove nelle famiglie di italiani del Mezzogiorno, più di uno su tre nelle famiglie con stranieri. L’onere della recessione ricade inoltre in maniera rilevante sugli immigrati: nel 2017 1,8 milioni di persone, il 36% degli individui in povertà assoluta, appartenevano a famiglie con almeno uno straniero, nonostante i componenti di questo tipo di famiglia rappresentassero solo il 10% del totale.

Un ulteriore elemento è relativo alla questione delle abitazioni, altro esempio del tempo perso in Italia sul fronte delle politiche sociali, con pesanti ricadute anche sui bambini ai tempi della crisi. Le politiche sulla casa hanno visto un ripiegamento su tutta la linea già a partire dagli anni Novanta. Da almeno tre decenni l’Italia destina al welfare abitativo una quota irrisoria della spesa sociale (lo 0,1% nel 2016), ben lontana da quella investita in questo settore cruciale da altri paesi. Allo stesso tempo la liberalizzazione del mercato immobiliare non ha prodotto i risultati attesi e il fondo sociale previsto per tutelare le fasce più deboli è stato progressivamente ridotto per essere azzerato nel 2018. In generale l’impianto normativo che regola la casa è fermo agli anni Sessanta, fondato su logiche di emergenza connesse con i vasti fenomeni migratori interni dell’epoca. Al contrario di quanto accade nei paesi europei dove le politiche per la casa sono legate alle politiche nazionali sul lavoro, alle misure di contrasto alla povertà e per l’inclusione sociale, ad altri strumenti di difesa dei diritti di cittadinanza, elementi che in Italia latitano.

L’assenza di politiche abitative degne di questo nome si scarica ovviamente sulle famiglie con meno risorse (il 38,9% delle quali vive in affitto, contro il 6,7% delle famiglie più benestanti). Queste sono il bacino potenziale delle nuove esclusioni sociali: i nuclei in grave difficoltà, la classe media impoverita negli anni della crisi e le famiglie giovani con figli che necessitano di alloggi più spaziosi e non troppo lontani dai servizi essenziali, ma non dispongono di reddito e ricchezza sufficiente per acquistare una casa. La stima dell’Istat sulla spesa delle famiglie con figli minori per l’anno 2017 mostra come i nuclei con la spesa più bassa destinino alla voce “abitazione, utenze e manutenzione” circa il 40% della disponibilità totale mensile della famiglia, una quota esorbitante, incomprimibile, che lascia ben poco margine a investimenti per l’istruzione e la cura dei figli. Tali costi incidono anche i bilanci del ceto medio, visto che tali famiglie, per questa voce, spendono il 30% del loro budget mensile.

La conseguenza è che in un paese nel quale si stima in circa due milioni il numero degli appartamenti sfitti e inutilizzati, negli anni della crisi il 9% della popolazione e il 14% dei minori ha patito condizioni di disagio abitativo grave, il 41% dei minorenni ha vissuto in situazioni di sovraffollamento e il 25% in appartamenti umidi, con tracce di muffa alle pareti e soffitti che gocciolano. Dati nettamente superiori a quelli che si registrano in Germania, Francia o Olanda, paesi che hanno saputo perseguire politiche abitative efficaci.

Un ulteriore e decisivo ambito nel quale l’Italia ha accumulato un gravissimo ritardo in questi anni, alimentando dispersione, fallimento scolastico e nuove povertà di futuro tra i più giovani, è quello dell’istruzione. Come sempre lo dimostrano i dati: secondo l’OCSE l’Italia spende per questa voce e per l’università circa il 3,6% del PIL, quasi un punto e mezzo in meno della media degli altri paesi.

A differenza degli ambiti menzionati prima, in questo caso il tempo perso non si deve alla semplice apatia della classe politica, ma è conseguenza almeno in parte in un’azione precisa, consapevole e devastante dell’azione di governo, la cosiddetta “cura dimagrante” dispensata dalla riforma del 2008, che ha tolto a scuola e università 8 miliardi di euro in tre anni: tagli lineari, ovvero a caso, solo in minima parte compensati da interventi successivi. La spesa è diminuita, sia per la scuola sia per l’università, scendendo dal 4,6% del 2009 al 4,1% del 2011, fino al minimo storico del 3,6% attuale. Nello stesso periodo molti Paesi europei rispondevano alla crisi in maniera diametralmente opposta, portando gli investimenti nel settore istruzione e ricerca al 5,3% del PIL, per poi scendere intorno al 5% negli anni a seguire, secondo i dati Eurostat.

Che sia una vera e propria scelta, per quanto miope, e non una semplice spending review, lo dimostra il fatto, segnalato dalla Commissione europea, che mentre l’investimento in istruzione diminuiva, nello stesso periodo in Italia la spesa pubblica totale aumentava.

È un circolo vizioso: lo Stato continua a disinvestire sui minori, le prospettive di sviluppo si assottigliano, i mercati percepiscono in aumento i rischi ai quali va incontro il Paese, le persone sono meno attrezzate per affrontare il futuro.

Nel complesso, con molti chiaroscuri, il settore maggiormente penalizzato è quello dell’università, come dimostrato dal basso numero di laureati, dalla fuga dei cervelli e dall’indebitamento delle famiglie per consentire ai propri figli di proseguire negli studi. Secondo Federconsumatori, nel 2018 889.000 famiglie italiane hanno chiesto un prestito a tale scopo, per un importo medio di 7.970 euro: poco più di 7 miliardi di euro di debiti. Con il 27,8% di laureati nella fascia 30-34 anni, l’Italia ha accumulato un ritardo di oltre 10 punti percentuali sull’obiettivo 2030 del 40%, già raggiunto dalla maggior parte dei paesi europei.

Il tempo perso sul fronte delle politiche educative e scolastiche si traduce ogni anno nel fenomeno della dispersione. Essa, misurata con l’indicatore europeo indiretto degli Early School Leavers (ESL) che stima quanti giovani tra i 18 e i 24 anni non sono inseriti in un percorso scolastico o di formazione professionale, mostra per l’Italia un lieve recupero nel decennio considerato: nel 2008 un giovane su cinque era uscito dal sistema formativo, nel 2018 la dispersione minaccia il futuro di un giovane su sette. Tuttavia, malgrado gli sforzi compiuti, negli ultimi due anni la tendenza positiva pare aver subito una battuta d’arresto, regredendo dal 13,8% del 2016 al 14,5% del 2018, un dato preoccupante che ci allontana dall’obiettivo europeo del 10% da raggiungere entro il 2020. Anche in questo caso vi è una situazione più inquietante nelle regioni meridionali: Sardegna al 23%, Sicilia al 22, Calabria al 20,3.

Per quanto riguarda la percentuale delle persone tra i 25 e 64 anni che hanno almeno il diploma l’Italia si assenta al 60,9%, dato significativamente più basso di quello della media europea (77,5%), superiore solo a Spagna (59,1%), Malta (51,1%) e Portogallo (48%).

Infine, di fronte al preoccupante fenomeno della denatalità, è opportuno precisare che il numero di bambini e ragazzi di origine straniera che vivono in Italia ha seguito un’evoluzione inversa. Nel 2008 i minori residenti con cittadinanza non italiana erano poco meno di 700.000 e rappresentavano il 6,9% del totale; dieci anni dopo la loro presenza complessiva ha superato il milione ed è al 10,6%, oltrepassando in alcune regioni anche il 15%.

I giovanissimi di origine straniera sono aumentati significativamente anche tra i banchi di scuola, un dato questo importantissimo. Proprio la loro partecipazione alla vita scolastica, infatti, contribuisce a scongiurare il rischio che la crisi demografica porti alla chiusura e all’accorpamento di numerosi istituti e, in prospettiva, alla possibile riduzione dell’organico degli insegnanti. Tuttavia è necessario prendere atto che la strada per assicurare la piena inclusione degli alunni di origine straniera nella scuola è in salita e ha bisogno di essere adeguatamente sostenuta da investimenti adeguati.

Come gli altri aspetti, del resto.

In conclusione ricordiamo che Save the Children ha diffuso breve video con i dati dell’Atlante e un altro sulla petizione promossa sulla riqualificazione degli spazi per i minori.